L’allenatore deve far convivere i rimasugli della rosa di Allegri e di quella di Motta, tra acquisti e cessioni da “commedia degli errori”, per giunta infruttuose, e provare a rivitalizzare gente che proprio non se la fila nessuno
Un anno fa, di questi tempi, la gran parte dei tifosi Juventini non stava più nella pelle e manifestava la sua gioia per l’arrivo di Thiago Motta con lodi sperticate e frasi altisonanti. Come se l’italo-brasiliano avesse in un attimo cancellato “l’inverno del nostro scontento trasformandolo in una estate gloriosa e ogni nuvola che oscurava la nostra casata fosse sepolta nel profondo ventre dell’oceano”. Sappiamo tutti come andò a finire. “Molto rumore per nulla”. Al punto che anche i più agguerriti sostenitori dell’#AllegriOut si mangiarono le mani in un mare di sensi di colpa di LadyMacbethiana memoria. La nuova stagione invece sta per cominciare all’insegna di un certo understatement.
Igor Tudor, anche se non è mai stato la prima scelta, sembra l’allenatore adatto per il momento che squadra e società stanno vivendo. Pare uscito da una saga medievale: un gigante croato, ex guerriero del campo, ora stratega in panchina. Il suo nome evoca grandi battaglie: indimenticabile quella del 2003 cui pose fine con il suo sinistro fenomenale al 93’ regalandoci la qualificazione ai quarti di finale di Champions League contro il Deportivo La Coruña. A proposito: prima di quel gol, quell’anno Tudor segnò soltanto un’altra volta, in campionato proprio contro il Parma. Anche se i capelli da condottiero li ha portati via il vento, il suo modo di guidare la squadra riflette proprio quello spirito: non sembra cercare il consenso ma la vittoria, che alla Juve – se ne saranno convinti anche i belgiochisti – è l’unica cosa che conta. In più, è uno senza fronzoli, non un filosofo.
Certo, non è Guardiola e neanche Klopp. Né tantomeno Conte. Ma non dobbiamo lascarci ingannare. Il cognome del nostro allenatore è ancor più altisonante. E speriamo che questa volta porti fortuna, visto che l’anno passato, nonostante il cognome, il suo omologo aveva rischiato l’esonero ben prima di poter mangiare il panettone.
Come nella celebre Guerra delle due rose che scosse l’Inghilterra nel XV secolo, anche a Torino questa sera comincerà la contesa per il primato nella speranza di poter “cingere le nostre fronti con l’alloro del vincitore”. Altro che quarto posto! E soprattutto con l’augurio che “le nostre faticose veglie” di Champions “si trasformino in feste spensierate”.
Tra il 1455 e il 1485 la guerra tra Lancaster e York, i due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti, lacerò l’Inghilterra ed estinse le linee maschili di entrambi i casati. Con un salto temporale degno di quello di CR7 contro la Sampdoria, arriviamo alla fine: Enrico VII Tudor, di ascendenza Lancasteriana, sposò la principessa Elisabetta, ultima rappresentante degli York, unificò i due rami e diventò il capostipite di una delle dinastie più importanti dell’Europa moderna.
Proprio come Enrico, il nostro Tudor ha il compito di rivitalizzare l’entusiasmo e, perché no, di regalarci anche un po’ di divertimento, cose che, sono convinto, saranno capaci di riunire anche le più estreme frange Allegriane e Mottiane sotto l’unica bandiera che conta davvero evitando polemiche sterili e fratricide.
Alla fine della guerra, Enrico creò anche un emblema ad hoc: la rosa Tudor, combinazione della rosa rossa dei Lancaster e di quella bianca degli York. Il nostro invece ha un compito ben più difficile: far convivere i rimasugli della rosa di Allegri e di quella di Motta, tra acquisti e cessioni da “commedia degli errori”, per giunta infruttuose, e provare a rivitalizzare gente che proprio non se la fila nessuno. Dovrà sfruttare la nobiltà tecnica di Yildiz, amalgamare la furia di giovani rampanti con la solidità e l’esperienza di veterani d’arme come Bremer e Locatelli per creare un’armata compatta e letale. Poi, se Tudor riuscisse anche a resuscitare Teun Koopmeiners, che finora si è visto come il fantasma del padre di Amleto, meriterebbe di entrare anche lui nei libri di storia. Certo, il compito è ardito visto che la ‘casata Juventus’ negli ultimi tempi sembra aver perso la grandezza dell’epoca che fu. Ma non disperiamo, perché “sebbene sia piccola, è feroce”.
A ogni modo: “Inquieta giace la testa che porta la corona”. Soprattutto se si parla di una panchina come la nostra. Ma Tudor, al contrario del suo predecessore, sembra sapere bene dove si trova e questo fardello l’ha voluto con tutte le sue forze. Altrimenti non si sarebbe fatto dieci ore di macchina da Spalato per arrivare a Torino a firmare il contratto accettando per giunta di essere magari detronizzato solo qualche mese dopo. Ma – ed è ancora questione di cognome – non poteva che avere addosso l’etichetta di “allenatore a tempo”. Intanto godiamoci questa notte di mezza estate e ripartiamo da Parma. Questa volta con un po’ più di pazienza. Dopo tutto, la Guerra delle due rose è durata trent’anni. Speriamo solo che per tornare grande quella della Juventus ci metta un po’ meno.