Morire in diretta. Quando lo streaming si spinge oltre ogni limite

Il caso del creator francese morto dopo quasi 300 ore di agonia in live è solo l’ultimo di un lungo elenco di casi simili. Tra esibizionismo e macabro gusto vouyer

Strangolato, seviziato, costretto a ingerire prodotti tossici. Lo streamer francese Jean Pormanove ha finito la sua vita in diretta, massacrato ininterrottamente per 298 ore (più di 12 giorni) da due complici. Si sono accorti che non respirava più dopo 10 minuti, poi hanno staccato tutto. La webcam però aveva già consegnato tutto ai suoi 193 mila follower di Kick, piattaforma australiana ben più permissiva e remunerativa di Twitch, da cui il content creator si era allontanato per timore di essere espulso. I contenuti che mostrava, infatti, sono vietati nella stragrande maggioranza delle piattaforme: sfide estreme, privazioni di sonno, violenza corporea e altri esempi di “autolesionismo professionistico”. Pane quotidiano per Pormanove che, nonostante i 46 anni e il fisico smunto e aizzato dalle monetine lanciate digitalmente da un pubblico vasto, ha spostato il limite della crudeltà e della sopravvivenza sempre più in là.

La notizia ha scatenato ondate di orrore e ribrezzo, specialmente in Francia. Ma non è certo il primo caso di morte davanti a uno schermo. Due anni fa a Gradacac, in Bosnia, un uomo ha ucciso la sua ex moglie in diretta su Instagram, poi è sceso in strada e ha sparato ad altri due, e infine ha puntato l’arma un’ultima volta contro di sé. Qualche giorno prima aveva annunciato il suo piano, sempre per video. Nel 2022 invece un ventenne si è ripreso in live mentre sparava all’impazzata per le strade di Memphis, in Tennesse. Tre morti, tre feriti e tre ergastoli, decisi qualche giorno fa da un giudice.

La condanna per Stanislav Reshetnyak è stata più leggera: 6 anni di reclusione per aver picchiato e poi ucciso la sua fidanzata in streaming. Era il dicembre 2020, il mondo era chiuso in casa per la pandemia e le dirette sui social erano al picco della popolarità. Lo youtuber, piuttosto noto, l’ha costretta a sedersi fuori dall’abitazione in biancheria intima, in mezzo al gelo che avvolgeva la Russia. Le forti ferite alla testa l’hanno uccisa in poco tempo, mentre le telecamere continuavano a trasmettere. “Valya, sei viva? (…) Ragazzi… niente polso… È pallida. Non respira”, ha detto il ragazzo prima di chiamare un’ambulanza. Questo genere di contenuti va sotto il cappello del trash streaming, la tendenza inquietante (ma redditizia) di mostrare il peggio della crudeltà e del pericolo in live.

In Italia non ci sono stati casi simili. L’unico che si avvicina è quello del creator Youtubo anche io, nickname di Omar Palermo. È morto a 42 anni per un infarto, lontano dai social. Sia lui che i suoi fan (oggi vicini al milione) erano ben consapevoli del suo problema di peso, ma i suoi video continuavano comunque a macinare risultati altissimi. Quello in cui si ingozza con “1 kg Tiramisù + 1/2 pollo” conta più di 3 milioni di visualizzazioni, “40 Kinder fetta al latte e un pollo ‘rafforzante’” quasi il doppio.

L’esagerazione attrae, in qualche modo emoziona il pubblico, che incita il creator di turno con commenti e donazioni. Riaccende e amplifica fino all’estremo quelle stesse sensazioni che proviamo guardando un film splatter: sullo schermo accade il peggio, noi invece siamo al sicuro. Il filtro della finzione cinematografica qui però non c’è, così come la qualità di un prodotto scritto per fare paura. Qui la telecamera è fissa, la scena è mostrata nella sua brutale verità. Un’agonia lenta e digitale, tra esibizionismo e macabro gusto vouyer.

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