I “dazi reciproci” di Trump sono solo una balla da mai più usare

La presunta equità che il presidente americano cita sempre, dicendo che il resto del mondo ha sfruttato gli Stati Uniti e oggi lui li sta emancipando da tale schiavismo, non ha alcuna base veritiera. A sostenerlo con fermezza i ricercatori del Centro studi sul Commercio mondiale del Cato Institute

Il presidente Trump ha dato inizio al suo tsunami mondiale daziario ormai sette mesi fa, ma siamo ben lungi dall’averne un quadro chiaro, e basato su documenti scritti secondo la forma e la sostanza obbligate in ogni accordo commerciale, al fine di consentire chiare interpretazioni sulle procedure e su costi per ogni prodotto e componente di ciascun flusso commerciale. A quattro settimane dall’incontro in Scozia tra Trump e Ursula von der Leyen, non c’è un testo preciso su come applicare il dazio Usa del 15 per cento, su quali prodotti siano esenti, e su quali si possa contare su un abbassamento della superaliquota riservata ad acciaio e alluminio. Al contrario, l’Agenzia delle Dogane Usa ha appena emanato un elenco di oltre 400 prodotti composti anche di alluminio e acciaio cui sarà esteso il superdazio del 50 per cento, estendendone dunque l’effetto su oltre 320 miliardi di import americano. L’incertezza resta, perciò il presidente della Bce Lagarde ha ammonito che potrebbe frenare il pil Ue nel terzo trimestre 2025.



Ma intanto c’è una cosa che si può dire con chiarezza assoluta. E’ venuto il momento di abbattere ora e sempre la definizione di “dazi reciproci” che Trump continua a usare. Non c’è nessun dazio reciproco, quello di Trump è solo brutale protezionismo mercantilista imposto unilateralmente. A sostenere con fermezza che i media mondiali devono smettere la definizione di “dazi reciproci” sono Scott Lincicome e Alfredo Obregon, vicepresidente e ricercatore del Centro studi sul Commercio mondiale del Cato Institute, think tank di prima fila e fedele dalla sua nascita all’economia di mercato. La loro ricerca mette in fila i dazi attuali pretesi da Trump a 144 paesi, e quelli da questi praticati sulle merci importate dagli States, utilizzando i dati più aggiornati del Wto e la lista contenuta nell’ultimo Executive Order di Trump sui dazi, il numero 14.326 del 31 luglio. Il risultato è chiarissimo. Non c’è alcuna pretesa “reciprocità”. Trump e i suoi consiglieri la basano su un calcolo degli ostacoli non daziari all’export Usa (standard tecnici, regolazioni ambientali, Iva) che però nessun documento federale ha saputo indicare con metodologia esplicitata, ma che sono citati a raffica, per esempio nel caso europeo, come ostacoli all’export Usa molto più temibili dei dazi stessi. Oltretutto, dimenticando disinvoltamente che barriere di questo tipo gli Usa ne hanno erette di altissime negli ultimi anni, sia con Trump sia con Biden.



Se invece il confronto si fa solo sui dazi attuali post tsunami riferiti alle sole merci e non ai servizi (altra stortura inaccettabile dell’impostazione trumpiana), il risultato è che per ben l’80 per cento dei paesi mondiali i dazi di Trump superano enormemente quelli medi in precedenza praticati da quei paesi all’import Usa. Lo squilibrio è ancora più rilevante per i maggiori fornitori di importazioni degli Stati Uniti: per tutti i primi 25 paesi da cui gli Usa hanno importato merci nel 2024, i cosiddetti dazi “reciproci” di Trump superano in media del 12,5 per cento i dazi di quei paesi sui prodotti americani. Con picchi assurdi. La Svizzera applica una tariffa media ponderata in base al criterio della “nazione più favorita” sulle esportazioni statunitensi pari al solo 0,2 per cento, ma ora vede le proprie esportazioni soggette a un dazio beffardamente “reciproco” del 39 per cento. La Ue praticava sull’import dagli Usa un’aliquota media dell’1,7, ora deve farsi andar bene un dazio medio del 15 sui suoi prodotti. La Nuova Zelanda incassava dazi sui prodotti Usa dell’1,5 per cento, ma deve pagare il 15 per esportare là. L’India applicava un dazio medio del 6,2 per cento soprattutto a tutela della propria agricoltura, ma ora è sottoposta a un 25 per cento di dazi sul suo export in aggiunta al 25 per cento precedente, cioè il 50 complessivo. Singapore praticava dazi zero sull’import americano, ora subisce un dazio del 10 per esportare in Usa.

Le aziende di Israele pagheranno per esportare negli States il 14,3 per cento in più delle americane che esportano in Israele. Quelle del Sud Africa, il 27 in più. Quelle di Taiwan il 18 in più. Numerosi paesi oggi così colpiti hanno in passato firmato accordi di libero scambio, applicando dazi ai prodotti Usa ancora più bassi rispetto a quelle di “maggior paese favorito”. E’ incredibile assistere a un tornado che spazza via ogni principio del diritto commerciale internazionale, annullandolo in base al mero “principio della forza”. La presunta “equità” che Trump cita sempre, querimoniando che il resto del mondo ha sfruttato gli Usa e oggi lui li emancipa da tale schiavismo, è una balla.

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