Entrismo fiorentino all’Apple Store, in un’ordinaria giornata agostana

Un telefono è morto (il mio iPhone 8), ora ne ho uno classificato il doppio (cioè il 16). Con me un magnifico specialista, elegante, comprensivo e sicuro di sé. Esperienza eccellente. Non mi comprometto neanche con Tim Cook

Il mio iPhone 8 è morto, non aveva che otto anni. Mi è premorto. La batteria – l’iPhone, quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra… Non so se valga per l’iPhone una regola come quella (fasulla, pare, ormai tutto è stato smentito) sui cani, che ogni anno loro valga sette dei nostri. Ho provato a dilazionare, “gli sono affezionato”, ho detto al commesso Apple, “ma lo può tenere”, ha detto lui, premuroso. Non intendevo in quel senso. Va be’, la Apple non spaccia vecchi modelli, e relative batterie, prima dei 15 e 16, e dei prodotti ricondizionati non mi fido più. Chiamarlo commesso mi sembra una diminuzione: un magnifico specialista, elegante, sicuro di sé, comprensivo. Ha proposto di verificare se il mio 8 valesse uno sconto, per la permuta: no, non lo valeva. Ci sono rimasto male, per lui, per l’8, non per me. Ora ne ho uno classificato il doppio, con un piccolo risparmio dovuto al mio disinteresse per le tre fotocamere. Una mi basta e avanza, anche se ora che so che gli altri magari ne hanno tre un po’ mi secca.



Il mio giovane collaboratore ha avviato il trasferimento dei dati dal cellulare defunto al nuovo arrivato, volevo andarmene a gironzolare e tornare a cosa fatta, ma l’ha escluso severamente. Devo presenziare. Non ci vorrà molto più di un’ora. I telefoni sono balzani, scrivono un momento che “mancano nove minuti” e il momento dopo che “mancano tre ore”. Avverto il mio custode, che mi rassicura: “Lo fanno, magari dicono che mancano sette ore, ma non è vero”. Mi rassegno, non me l’aspettavo, non ho con me nemmeno un giornale – e nemmeno uno smartphone da scorrere. Così sbircio la striscia del trasferimento dati che si allunga, ma lentissimamente, e mi ricordo di Michele Serra che raccomanda di non guardare la caffettiera, se no non esce. E mi chiedo come mai l’Apple Store non abbia qualche rivista di pettegolezzi televisivi da sfogliare, come i dentisti. Mi guardo attorno, dal mio sgabello. Il locale è spazioso, asettico, ricorda certe enoteche della Norvegia proibizionista.



E’ mezzogiorno del 20 agosto, non c’è la folla di altre volte. L’uomo della security, grande e grosso come si deve, sembra annoiarsi un po’. “Nessuno ruba niente, eh?”, gli dico, solidale. “Eh!” Mi scruta un po’ sospettoso, poi ride. Ci sono parecchi stranieri conciati da turisti, siamo nel pieno centro di Firenze, c’è un’allerta arancione e però 31 gradi. L’Apple Store sembra accogliente, uno di quei posti in cui si può entrare alla chetichella in un giorno di pioggia. Ci sono tre ragazzini, si spostano da un tavolo all’altro a divertirsi con i pc in mostra, bellissimo spettacolo, io non sono invidioso, non dei bambini. C’è un’amica di Wlodek, mi dice molte cose utili, soprattutto di fare il backup su iCloud, nemmeno Wlodek lo sapeva, dice. Il mio custode, che passa assiduamente a controllare lo stato del trasferimento, si stupisce che io abbia un contratto iCloud da 10 euro al mese quando uno di un euro sarebbe più che sufficiente col mio consumo, facciamo un downgrade? Come no, facciamolo. Firmo troppi contratti, per non fare brutta figura.



Alla fine, resta solo il riconoscimento facciale, non ce l’avevo, avevo l’impronta digitale – e un vasto passato d’inchiostri, nel campo. Ho una renitenza, sono riluttante io stesso a riconoscere la mia faccia nello specchio del risveglio, ma il 16 se ne impadronisce subito, senza tante storie, a differenza dell’obiettivo dei tornelli d’aeroporto, che sfotte.



Riceverò la mail col modulo che chiede della mia esperienza col team Apple, da pessima a eccellente: Eccellente. Cosa è andato bene? Tutto. Che cosa c’è da migliorare? Niente. Be’, è vero. Con quale probabilità consiglierei l’esperienza Store a un amico o un collega? Da zero a 5, 5: massima probabilità. Tant’è vero che lo scrivo qui. Senza paura delle polemiche faziose: non mi comprometto con Tim Cook, e ho letto anch’io che l’altro giorno ha regalato a Trump una targa con la base in oro dello Utah a 24 carati, gesto molto grossolano. Questione di dazi, cose loro. Il mio è stato un entrismo fiorentino di un giorno d’agosto. Dentro e contro.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.