Controllo dei conti e stabilità politica, il contrario della Francia. Dopo la fine turbolenta dei governi Berlusconi e Conte, la destra ha capito che quando si governa è meglio non sfidare i mercati
Il sorpasso sembra ormai inevitabile e viene seguito con più attenzione e apprensione in Francia che in Italia. Le curve dei rendimenti dei titoli di stato sono destinate a incrociarsi e oltralpe quasi fanno fatica a crederci: “La Francia rischia di pagare più dell’Italia per il suo debito”, titolava ieri il Monde. Più che un rischio, pare solo una questione di tempo: come scriveva Bloomberg nei giorni scorsi, gli strateghi di Commerzbank un mese fa hanno previsto l’azzeramento dello spread tra Roma e Parigi. Sarebbe la prima volta dal 1998. Già nei giorni scorsi il differenziale sul decennale è sceso a 10 punti, il livello più basso dal 2005. Pare quasi incredibile se si considera che nel 2011-2012, al culmine della crisi dei debiti sovrani e dell’euro, il debito italiano era considerato talmente a rischio che pagava circa 400 punti base in più rispetto a quello francese. Quel premio per il rischio si è prima notevolmente ridotto – per i vari aggiustamenti fiscali, per le riforme dell’Eurozona e per l’intervento della Bce – per poi, negli ultimi tre anni, dissolversi lentamente. E questo nonostante il debito pubblico italiano sia venti punti superiore a quello francese: 135% contro 115% del pil. Da tempo i francesi guardano al ralenti l’inesorabile sorpasso: è il “sovvertimento delle gerarchie”, aveva scritto a luglio Les Echos, quando il rendimento dei Btp a cinque anni era sceso due punti sotto gli Oat francesi.
E in effetti, come scriveva Les Echos, c’è un ribaltamento che è anche politico. La Francia, che con il suo presidenzialismo in Europa incarnava la stabilità politica, ora ha conti pubblici fuori controllo e governi instabili: Emmanuel Macron ha cambiato quattro primi ministri in un anno, anche quest’ultimo ostaggio delle ali estreme di un Parlamento incapace di riportare il deficit di bilancio, ora attorno al 6%, sotto il limite del 3% neppure nel 2029. L’Italia, che una volta era l’emblema dell’instabilità politica e dei bilanci precari, con Giorgia Meloni ha uno dei governi più solidi d’Europa, sta facendo un aggiustamento fiscale ritenuto credibile e potrebbe riportare il deficit sotto il 3% già nel 2025, con un anno di anticipo rispetto al piano concordato con Bruxelles.
Naturalmente buona parte dell’allineamento tra i due paesi è dovuto soprattutto al deterioramento politico e fiscale della Francia, che ha visto notevolmente peggiorare la sua credibilità sui mercati. Non a caso, ben prima dell’Italia, il “sorpasso” sulla Francia è già avvenuto da parte di Spagna, Portogallo e addirittura Grecia: il “sovvertimento delle gerarchie” riguarda un po’ tutti i paesi mediterranei che riescono a coniugare crescita economica (vedi Spagna) con una grande responsabilità fiscale (Portogallo e Grecia sono addirittura in surplus di bilancio). Anche l’Italia si inserisce in questa traiettoria di crescita e consolidamento fiscale, che punta a conquistare una maggiore fiducia sui mercati che viene riconosciuta sia dagli investitori sia dalle agenzie di rating.
La credibilità economica dell’Italia dipende dalla solidità dell’intesa politica tra Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti. Se si guardano i governi degli ultimi due decenni, mai si è vista un’intesa così forte sui fondamentali della politica economica tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia (fatta eccezione per i governi tecnici). Questo patto così forte, probabilmente, dipende dalle esperienze traumatiche vissute nei governi che avevano perso la fiducia dei mercati: Meloni era ministro quando il governo Berlusconi venne travolto dallo spread sopra i 500 punti nel 2011, Giorgetti era sottosegretario a Palazzo Chigi quando nel 2018 il governo Conte venne scosso dallo spread oltre i 300 punti per l’aperta sfida contro i vincoli europei. Per un decennio, dalla caduta di Berlusconi alla fine del governo gialloverde, la destra italiana ha predicato contro la “dittatura dello spread”, indicato come “un’arma” usata dall’Europa o dalla finanza internazionale per disciplinare i governi oppure per “sovvertire” la volontà popolare. Insomma lo “spread” e la sua gemella “austerità” erano i nemici della democrazia e della destra.
La fine turbolenta degli ultimi due governi di destra che avevano perso la fiducia dei mercati deve aver convinto Meloni e Giorgetti che quel tipo di strategia può forse portare una forza politica al potere, ma la fa restare molto poco. Pertanto la prudenza fiscale è diventata la bussola del nuovo governo. E i fatti hanno dimostrato quanto fosse infondata e mistificatoria la narrazione della destra anti austerity e no euro. Da un lato, l’andamento dello spread dimostra che i mercati sono tutt’altro che ideologici: puniscono un governo di centro in Francia e premiano un governo di destra in Italia, se quest’ultimo si mostra più affidabile. Dall’altro lato, la responsabilità fiscale ha dimostrato non solo di non essere nemica dei consensi, ma di essere un pilastro della stabilità politica. D’altronde, se il governo avesse attuato una politica economica meno prudente, molto probabilmente la sfiducia dei mercati sulla Francia avrebbe contagiato anche l’Italia, mettendo il governo Meloni in una condizione analoga a quella di Berlusconi e Conte.