Vade retro tofu! Niente eccezioni: a tavola solo salame, pasta fresca e carne. Chi non regge il vino resti fuori, tra surgelati e pianti evangelici
Va bene, mi tocca invitarvi a cena, ma ne siete all’altezza? Perché un conservatore non ospita dissipatori, dilapidatori della nostra cultura enogastronomica, e dunque ve lo potete scordare di entrare in casa mia se siete astemi, allergici, vegetariani. Se siete intolleranti a qualcosa sappiate che sono molto più intollerante di voi: fuori! E non è un fuori qualsiasi ma un fuori apocalittico-evangelico (Matteo 8,12) di “pianto e stridor di denti” ossia, in quest’ambito, di pietanze surgelate e bevande zuccherate.
A casa mia ogni cena comincia con una fetta di salame e un bicchier di vino. Il salame può essere di qualsiasi tipo, di qualsiasi zona, purché di maiale. Il vino può essere di qualsiasi colore, bianco, rosa, rosso, purché da vitigni autoctoni. Vegani, maomettani e sciampagnomani non passano perché non ci sono alternative, la regola per la quale non sono previste eccezioni è che si mangia quello che passa il convento e per me non è solo un modo di dire, io li frequento i conventi, a Pasqua ho festeggiato coi frati, purtroppo le pie donne avevano portato colombe ripugnanti, di quelle farcite, alla pesca, al pistacchio, con le gocce di cioccolato, colombe da dare ai porci, eppure le ho assaggiate accompagnandole col solito proseccaccio bucapancia senza sollevare la benché minima obiezione, Cristo è risorto, auguri. In Chiesa coi santi, in taverna coi ghiottoni, a casa mia col conservatore intransigente.
Il primo è quasi sempre a base di pasta fresca. Perché il contrario di pasta fresca è pasta secca, definizione triste che potrebbe peggiorare ulteriormente: pasta vecchia. Poi perché la pasta fresca è artigianale e non industriale, locale e non globale, umana e non meccanica (o un po’ meno meccanica…). Ed evitando spaghetti e rigatoni ci si risparmiano amatriciane, cacio e pepe e carbonare, il trio mortale che dopo aver banalizzato la cucina romana sta uccidendo la cucina regionale italiana. Il secondo piatto può essere di carne oppure no, a questo punto conta poco, la funzione di dogana identitaria l’ha già svolta il salame anche se è forte la tentazione di servire lumache o gnummareddi, cibi estremi, cibi che la milanese mangiatrice di tofu guarda con orrore, che il progredito smidollato se potesse vieterebbe, che forse piacciono solo a me e al ministro Lollobrigida. Verso la fine del pasto alla mia tavola il formaggio non manca mai, ovviamente stagionato siccome “anima è quel che nasce nelle cose quando durano”, parola di Gómez Dávila. E quindi grana, asiago di malga, piave vecchio, provolone Recco, caciocavallo podolico, pecorino di Moliterno capaci di conservare l’effimero latte anche per anni. Di vino finora ho discettato pochissimo, così avrò qualcosa da dire nella prossima puntata.