Pioniera dell’istruzione femminile in Afghanistan, sfidò i talebani costruendo scuole per oltre 800 bambine. La sua eredità resta nel “villaggio verde” di Deh Subz
Quando Razia Jan rimise piede in Afghanistan, era il 2002. Mancava dal suo paese da più di trent’anni, dopo una vita trascorsa a Duxbury, Massachusetts, dove gestiva una catena di lavanderie, routine di provincia e tenacia imprenditoriale. Fu il crollo delle Torri gemelle a svelarle l’urgente bisogno di aiutare gli altri: un impulso netto, non retorico. Si spese per le vittime dell’attentato, realizzando coperte di pile per gli operatori sanitari d’urgenza e trapunte ricamate con i ritratti dei pompieri e dei poliziotti morti. Anche il suo Paese, l’Afghanistan, necessitava di un aiuto, e fu così che iniziò per Razia Jan un cammino a ritroso che l’avrebbe portata sempre più spesso a vivere, operare, lottare per un popolo annientato dall’ennesima guerra.
Jan visitò scuole, orfanotrofi e ospedali, comprando riso, farina, quaderni, penne, forniture ospedaliere… tutto ciò di cui c’era bisogno. Ma davvero bastava? A essere stata rasa al suolo da anni di regime era la prospettiva di fare crescere persone capaci di esprimere un’idea, articolare ipotesi, progettare, pensare di migliorarsi e rischiare con le proprie forze. In quell’Afghanistan, Razia si rese conto che era stato spento il motore di un vero sviluppo: chi interveniva per aiutare il paese rispondeva a necessità impellenti, ma non guardava al futuro. Serviva far ripartire l’istruzione, in particolare quella femminile, che dal 1996 al 2001 era stata completamente censurata. Dopo la cacciata dei Talebani, scuole femminili erano nate in tutto il paese, ma si trattava di iniziative rischiose. Alcune scuole erano state incendiate e le studentesse avvelenate, sfregiate con l’acido o picchiate da parenti maschi, detentori della loro stessa esistenza.
Jan si mosse con astuzia e pragmatismo. Ritornò in America dove entrò in contatto con Patti Quigley e Susan Retik (entrambe avevano perso i mariti negli attentati), con le quali decise di avviare iniziative capaci di accendere un faro sull’istruzione femminile afghana e di raccogliere fondi per processi concreti. Nel 2005 trovò un appezzamento di terreno a Deh Subz, una comunità rurale a circa 48 chilometri a nord-est di Kabul, e iniziò a costruire, superando le diffidenze della popolazione che considerava non opportuna la formazione femminile. Nacque così nel 2008 il Centro educativo Zabuli, dedicato alla finanziatrice del progetto. Oltre 100 bambine iscritte, dalla scuola materna alla quarta elementare, e nel giro di pochi anni furono inaugurati nuovi livelli scolastici. Una delle prime lezioni riguardava come scrivere il nome del proprio papà: una trovata della donna per “conquistare” i padri, molti dei quali analfabeti e incapaci di firmare un documento se non con l’impronta digitale. Le storie di queste bambine, poi diventate ragazze – tante di riscatto, altre di dolorosa violenza – furono raccontate in un documentario del 2016. Con i proventi del film, Razia riuscì a realizzare un college femminile con un corso di studi gratuito in Ostetricia, fondamentale in un paese con alti tassi di mortalità infantile e materna.
Quando, nel 2021, i Talebani ritornarono al potere, dichiararono illegale l’istruzione femminile oltre la sesta elementare. Razia Jan dovette chiudere sia la scuola secondaria sia l’università, ma non accantonò il suo desiderio di ripartire: “Insegneremo a quante più persone possibili”. Oggi le bambine iscritte nella sua scuola, con classi dalla materna alla sesta elementare, sono oltre 800.
Razia Jan è morta alla fine di luglio a Los Angeles. Aveva 81 anni. Nei giorni scorsi il New York Times le ha dedicato un importante omaggio: la sua presenza è forte a Deh Subz, che significa “villaggio verde”, un luogo di speranza, quella che lei ha acceso in migliaia di giovani donne afghane.