Quando si varca la soglia di una prigione, la vita precedente si congela, il condannato diventa “niente”. Ma al potere sembra non bastare: a un’identità spogliata si sommano indicibili condizioni di miseria e sofferenza
Nei giorni a cavallo di Ferragosto migliaia di detenuti sono rimasti nelle loro celle, mentre fuori le persone, chi più e chi meno, godevano i loro scampoli vacanzieri. Ultimamente, Gianni Alemanno ha denunciato la condizione penosa della vita dietro le sbarre. Non conta nulla per me cosa pensi di politica Alemanno. Non mi condiziona che sia stato un mio avversario (leale), né mi pesano le sue gesta giovanili di stampo fascista. Su tale argomento mi interessa solo la sua persona. E mi interessano tutte le altre persone che partecipano al suo attuale destino.
Mi domando: cosa ci può essere di più terribile del “congelamento” del vivere? Noi, “liberi” ci muoviamo nel mondo costruito secondo le nostre esigenze. Abbiamo dato un nome alle cose, trasformato l’ambiente naturale in un luogo abitabile, sfruttabile, godibile. Viviamo dentro questa rappresentazione da noi stessi pensata e organizzata: sperando di realizzare ed esprimere nella misura più grande le facoltà che, misteriosamente, ci sono state donate. Quando varchi la soglia della prigione, tutto scompare all’improvviso. Spazi, tempi, comportamenti, la propria intimità, diventano “casacca” di una identità spogliata. Del prima e del dopo flebili tracce. Paghi la colpa diventando transitoriamente un “niente”.
Non è già questo abbastanza? Lo stato, esercitando la forza che abbiamo ad esso concessa (per non sbranarci come animali selvatici), sentenzia l’espulsione dalla vita, per un tempo più o meno lungo, a seconda della gravità di ciò che si è commesso. Ma allora cos’è il di più di sofferenza che viene inflitta per le condizioni miserabili nel luogo in cui si è costretti ad abitare? Il sovraffollamento, il caldo insopportabile, le mura sporche e scorticate, i servizi igienici arrangiati, le prepotenze gratuite e invitabili.
Sembra non bastare ridurre il condannato a una vita nuda. Occorre arrecare un surplus di sofferenza. Perché? E’ l’animo umano che sempre approfitta di un potere non frenato da un altro potere. Montesquieu ricordava quanto l’esercizio della giustizia sia sempre terribile. Dove c’è squilibrio e chi sta sotto non ha diritto di replica, quando c’è una debolezza necessariamente muta, la forza perde misura e chi la detiene placa l’ansia per la sua finitezza e per il suo essere votato alla morte, con il potere di “decidere” a suo piacimento su un altro essere umano. E’ l’euforia nel percepirsi anche per un solo momento quasi divino e dunque immortale.
In verità, mai come ora l’insieme della società è segnata dalle diseguaglianze, dal malessere, dalla fatica fisica e psichica, dalla velocità che spezza le vite. Ma questa sofferenza diffusa, molecolare, attraversata individualmente, da molto tempo ha perso il suo peso specifico. E’ entrata nell’ombra dell’assuefazione e non è in grado di mettersi in scena. Lo sviluppo della nostra società valorizza la salute fisica, il benessere, il sogno dei consumi e le speranze di un guadagno tutto sommato facile, le buone notizie e il buon umore.
Solo nei luoghi riparati all’occhio della maggioranza e dell’opinione pubblica, si può scaricare, accumulare, mostrare la sofferenza, fino all’orrore. Nei luoghi dimenticati, di scarto, separati, esclusi. Quelli dove vige il comando unilaterale, la solitudine e l’indifesa pazienza di chi subisce. Quelli del disagio mentale, dei ricoveri per anziani, dei bambini abbandonati e con vite in bilico, degli immigrati. O delle case dalle persiane chiuse, a nascondere le violenze subite dalle donne in tante famiglie. C’è una volenterosa umanità che si impegna per alleviare dovunque la pena di tali vite. Ma lavora controcorrente: per questo incapace di rompere lo scorrere del dolore.
Il luogo che riassume tutti questi luoghi è proprio il carcere. Ecco perché: l’azione giudiziaria dovrebbe essere molto più consapevole della sua precarietà; del suo carattere relativo; diverso da paese a paese; dell’inevitabile approssimatività nella definizione del giudizio; dell’influenza che subisce per il cangiante animo di chi la gestisce; dell’impotenza nell’arrivare alla maggior parte dei crimini o dei delitti, che rimangono grandissimamente impuniti; della riflessione che, in fondo, coloro che stanno di fronte a un tribunale sono la minoranza degli sfortunati, rispetto a chi ha avuto buona sorte di non essere perseguito.
La cattiva coscienza dei benpensanti si scarica sull’inevitabilità delle zone franche dove vive, secondo loro, “l’eccezione”. Così, il condannato diventa sempre un mostro. E la guerra si giustifica trasformando il nemico nel “male assoluto”. Indimenticabile la scena finale del film “Monsieur Verdoux” di Charlie Chaplin quando domanda, andando al patibolo, perché la sua colpa che lo condanna a morire fosse più grave di quelle commesse da quelli che avevano deciso la sua condanna a morte. Quelli che consideravano normale sganciare bombe, commettere stragi, dichiarare guerre di sterminio.
Voltaire ebbe a dire che la civiltà di un paese si misura dalle condizioni delle sue carceri. Questi principi di civiltà paiono eclissarsi con la fine di ogni valore, se non quello del denaro e del consumo. Il nichilismo, annichilisce, appunto, ogni pietà. Invertire la rotta è un lavoro politico ma anche di attraversamento delle condizioni di sofferenza ritenute marginali, ma in realtà capaci di chiamare in causa la logica dell’intera società. Ripartire da questi luoghi, dal basso, può contribuire a rimettere insieme un mosaico universale di solidarietà, di uguaglianza e di fraternità.