Record di candidature agli Emmy, ma la commedia delude: tanti i grandi interpreti che portano in scena sé stessi, ma troppi stereotipi in un universo post morale. Occasione sprecata di un aggiornamento del filone “cinema sul cinema”
“Devi vedere assolutamente The Studio: ti piacerà enormemente per l’ironia con cui racconta Hollywood dall’interno”. Così mi hanno ripetuto molti amici, sottolineando a garanzia della qualità le 23 candidature agli Emmy, record assoluto nella categoria commedia. Sono da sempre scettico riguardo ai premi, vuoi che siano gli Oscar, dove sono stati ignorati Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock e Charlie Chaplin, che i Nobel, dove in tempi recenti si è pensato bene di non premiare Philip Roth, Jorge Luis Borges e Cormac McCarthy. Figurarsi gli Emmy, mi sono detto, quando ho scoperto che aveva ricevuto lo stesso numero di candidature la terza serie di White Lotus, irrimediabilmente brutta: nei premi, in tutti i premi, la qualità è soltanto un elemento, meno determinante degli investimenti, le strategie di marketing, l’opportunità e la sintonia dell’opera o dell’autore con il momento storico, antropologico e politico.
Cercando di resistere alla diffidenza, forse anche allo snobismo, ho cominciato a vedere The Studio, e sin dalle prime immagini mi è tornato in mente The Player, il film con cui Robert Altman raccontava nel 1992 l’ambiente degli studios hollywoodiani: la pellicola è citata esplicitamente con l’uso del nome Griffin Mill, interpretato allora da Tim Robbins nel ruolo di un giovane executive e oggi da Bryan Cranston nei panni dell’amministratore delegato dell’immaginaria Continental, lo studio nel quale è ambientata la vicenda. Mi sono chiesto se Seth Rogen, interprete e ideatore della serie insieme a Evan Goldberg e Alex Gregory, abbia voluto suggerire che si tratta dello stesso personaggio a trent’anni di distanza, ma non ho trovato nulla che lo dimostri: probabilmente si tratta solo di un omaggio a un film venerato.
Per quanto mi riguarda ho sempre amato il cinema sul cinema, sia quando racconta personaggi e situazioni che prescindono dall’ambientazione, come nel caso di 8 e ½, Viale del tramonto e Gli ultimi fuochi, sia quando è focalizzato sulla realizzazione dei film e i relativi meccanismi produttivi, come in Singin’ in the Rain, Effetto notte e Il Bruto e la Bella. Amo in egual misura i romanzi e i reportage su quella che non a caso viene definita la fabbrica dei sogni: mi limito a citare Picture, scritto da Lillian Ross nel 1952. Voglio anche aggiungere che provo un’istintiva simpatia per Seth Rogen, il quale, dopo essersi affermato come attore comico con Judd Apatow, ha dimostrato un insospettato spessore recitativo in The Fabelmans di Steven Spielberg.
Insomma The Studio aveva tutti gli elementi per piacermi, ma già nel corso della prima puntata ho cominciato a provare un crescente disagio, che si è trasformato in profonda delusione per un’occasione persa, nonostante qualche spunto interessante, un paio di sequenze riuscite e il coraggio di ironizzare sulle degenerazioni del politicamente corretto all’interno di un universo cinico, superficiale e chiuso.
Per chi ancora non lo sapesse la serie racconta le vicissitudini di un executive al quale viene affidato il comando della Continental dopo una serie di fiaschi al botteghino da parte di Patty Leigh, responsabile della produzione e sua mentore (Catherine O’Hara). Matt Remick, questo il nome del personaggio interpretato da Seth Rogen, ama sinceramente il cinema e, almeno all’inizio della vicenda, è in grado di riconoscere la differenza tra un’opera d’arte come Goodfellas di Martin Scorsese e un prodotto realizzato solo con il fine di generare profitti. Nel momento in cui viene nominato, si ripromette di essere un mogul amico degli autori, che trasformerà la Continental in una major che produce film di qualità, ma i nobili propositi si infrangono rovinosamente nel corso del primo colloquio con l’amministratore delegato, il quale gli spiega di averlo nominato per realizzare “movies not films” (in italiano potremmo dire cinema d’intrattenimento e non d’autore) e gli pone come condizione di realizzare una pellicola sulla Koole Aid, bevanda popolarissima tra le classi meno abbienti, per tentare di replicare l’incredibile successo ottenuto da Barbie.
Nel corso della prima puntata assistiamo al maldestro tentativo di Remick di trovare il modo di combinare i suoi propositi con l’imposizione del suo capo, cercando di trasformare un progetto che gli ha portato Martin Scorsese sulla setta di Jim Jones nel film sulla bevanda: acquista la sceneggiatura per dieci milioni di dollari, ma poi, rendendosi conto della follia del suo piano, è costretto ad annullare il progetto, lasciando il regista in una situazione di sconcerto, rabbia e poi disperazione. Martin Scorsese non è l’unico personaggio reale che compare interpretando sé stesso: nella puntata iniziale c’è anche Charlize Theron, che ospita un ambitissimo party al quale Remick riesce a partecipare in virtù della sua nomina, e negli altri episodi compaiono Ron Howard, Sarah Polley, Zoe Kravitz, Ice Cube, Aaron Sorkin, Steve Buscemi, Zack Snyder, Olivia Wilde, Owen Cline, Paul Dano, Anthony Mackie e perfino Ted Sarandos, potentissimo boss della Netflix. A volte si tratta di brevissimi cammei, altre volte di veri e propri ruoli interpretati con autoironia.
Anche questa mescolanza tra personaggi reali ed immaginari rimanda a The Player, ma il raffronto si rivela immediatamente impari: c’è un enorme differenza tra personaggi immortalati con pochi schizzi, come riusciva a fare Altman, e le macchiette che non superano la bidimensionalità di cui è costellata la serie. Ciò diviene maggiormente evidente nel modo in cui sono tratteggiati i collaboratori del protagonista: il braccio destro Sal, un frenetico executive dedito alla cocaina (Ike Barinholtz), la sua vice, abusata psicologicamente e pronta a qualunque mezzo per vendicarsi e conquistare il potere (Chase Sui Wonders), la volgarissima direttrice del marketing (Maya Mason) e il resto dello staff. Purtroppo, con la parziale eccezione di Remick, il cui amore per un cinema confinato nel passato si rispecchia nella passione per le auto d’epoca, non c’è un singolo personaggio che abbia la minima levatura e qualcosa di attraente: sono tutti divorati dalla fame per il successo, e pur di averlo sono pronti a uccidersi l’un l’altro.
Intendiamoci: molti grandi film hanno protagonisti che commettono crimini di ogni genere, a cominciare da Arancia meccanica e Il terzo uomo, ma si tratta di personaggi la cui immoralità va di pari passo con il carisma e lo spessore. In The Studio non si va oltre la rappresentazione di stereotipi senza alcuna profondità, creati unicamente per far andare avanti la storia secondo le intenzioni degli autori: sono strumentali, insomma, e non appaiono dotati di alcuna vita interiore che li obblighi a confrontarsi con le rispettive scelte etiche. Quel che è peggio però è che si stenta ad attribuirgli persino una dimensione esteriore, salvo l’attenzione prestata ossessivamente da Remick per il modo in cui appare: lo vediamo cambiare i capi di abbigliamento non appena riceve una minima critica e tingersi i capelli per poi vergognarsene. Uno degli elementi deludenti è proprio la mancanza di fisicità, ed è illuminante che l’unica scena di sesso non generi alcun piacere nella coppia che lo pratica. Anche in questo caso mi è tornato in mente un paragone impari: la scena erotica nel formidabile Network di Sidney Lumet, nel corso della quale Faye Dunaway continua a parlare di lavoro anche durante l’orgasmo.
Con il susseguirsi delle puntate, i personaggi hanno cominciato a sembrarmi niente più che dei cartonati di uomini e donne interessati soltanto a godere il momento all’interno di un universo talmente vuoto da risultare post morale: elemento che sarebbe drammaturgicamente stimolante, se gli autori avessero dato sostanza a questa dimensione. L’attenzione di Rogen, Goldberg ed Edwards sembra invece tutta nell’accuratezza con cui viene ricreato il gergo hollywoodiano e la continua lotta per il potere all’interno di un universo conosciuto alla perfezione: il risultato è nella migliore delle ipotesi sociologico, ma certamente non artistico.
A cominciare dalle continue umiliazioni dei registi, non c’è argomento o dinamica psicologica che non sia stata immortalata in maniera estremamente più efficace nei 124 minuti del film di Altman rispetto alle dieci puntate della serie odierna, e di fronte alle azioni convulse, superficiali e spesso stupide dei protagonisti, ci si chiede come sia possibile che Hollywood abbia prodotto tutti i capolavori con i quali ha arricchito la storia del cinema e formato il nostro immaginario collettivo. Anche volendo accettare i parametri della commedia, sussiste un problema di realismo riguardo a Remick, talmente goffo da combinare ripetutamente disastri di ogni tipo: nella vera Hollywood non sarebbe mai nominato direttore della produzione di una major e se per qualche misterioso caso ciò dovesse succedere, sarebbe licenziato nel giro di ventiquattro ore.
The Studio è una serie in cui la solitudine viene dichiarata anziché espressa, e nella quale compare inevitabilmente anche la madre del protagonista, generando l’ennesimo confronto impari: Woody Allen ha ripetutamente risolto una simile dinamica con invenzioni geniali, quali l’apparizione della Jewish Mum in cielo che continua a tormentare il figlio con le sue preoccupazioni. Ho voluto sottolineare l’appartenenza al popolo ebraico, perché, sebbene non sia mai esplicitamente detto, buona parte dei protagonisti sono ebrei, a conferma di una costruzione realizzata attraverso i cliché. I ricorrenti disastri nei quali finisce per mettersi perennemente Remick potrebbe renderlo un’ennesima incarnazione dello schlemiel, l’antieroe goffo, inetto e sfortunato della tradizione ebraica, ma oltre a essere carente sul piano della fisicità, la serie lo è anche nel rapporto con la storia, le radici, il sangue.
C’è un altro elemento che avrebbe meritato un approfondimento: gli studios vivono un momento di declino, forse irreversibile, e c’è da chiedersi se sia solo un paradosso che la serie sia stata realizzata da Apple TV, responsabile della crisi insieme agli altri canali in streaming. La delusione diventa più cocente quando gli spunti sono stimolanti: nella puntata che preferisco, Matt Remick ha una relazione con un medico, la quale gli chiede di accompagnarlo a un gala di beneficenza per raccogliere fondi per la ricerca oncologica. La donna, seria e dedita al suo lavoro, conosce a malapena il cinema, e lui, a digiuno del mondo esterno a Hollywood, si ripromette di farle da mentore. Sin dall’arrivo al gala è evidente però l’impossibilità di dialogo tra i due mondi: Remick cerca di sostenere che il cinema ha un valore non inferiore alla cura dei tumori, ma proprio quella sera deve approvare il trailer di un film con zombie che defecano sui viventi. La situazione degenera rapidamente e si conclude con un disastro: al termine della puntata, lo vediamo con una nuova amante proveniente dal suo stesso ambiente.
Ho cercato di appassionarmi anche alla puntata nella quale il protagonista e il suo staff devono mostrare il film sul Kool-Aid agli esercenti: la presentazione è preceduta da riunioni interminabili e demenziali nelle quali l’unica preoccupazione è non offendere nessuno mantenendo rigorosamente le quote relative al genere e al colore della pelle. Chi conosce Hollywood sa quanto ci sia di vero in questi meccanismi, ma la situazione è trascinata per le lunghe e dopo un po’ la satira sul politicamente corretto diventa stantia. Ho cercato infine di farmi coinvolgere dalla puntata nella quale il protagonista visita il set di Sarah Polley, che sta preparando un difficilissimo piano sequenza: “è quello che mi piace del nostro lavoro”, dice Remick a chi cerca di dissuaderlo spiegandogli che la sua presenza innervosisce le troupe. Gli inevitabili disastri che scatena generano alcune situazioni divertenti, ma rimane la sensazione di un viaggio in un mondo senza senso, perché privo di qualunque riferimento che non sia un film precedente. E’ questo il motivo per cui l’elemento più valido è il lavoro sul linguaggio, fatto di citazione continue, quasi sempre di pellicole modeste, espressioni aggressive (“Go kill them!”) e un turpiloquio costante quanto inutile (l’intercalare è motherfucker).
Purtroppo è troppo isolata la scena in cui vediamo Remick che si esalta insieme alla responsabile del marketing di fronte agli eccellenti risultati di un test su un film: “Faremo miliardi!” urlano gesticolando in maniera volgare, ed è evidente che è l’unico fine della loro intera esistenza. Non potrebbe essere altrimenti: in questo universo post morale, nel quale l’unica luce è quella dei proiettori, uno dei massimi obiettivi per i produttori è un posto per parcheggiare la macchina all’interno dello studio, e per le star viaggiare con il jet privato.
Del resto vincere un premio trasforma questi personaggi in “leggende” e l’intero episodio ambientato ai Golden Globe ruota intorno all’importanza di essere citato nei ringraziamenti dei vincitori. Quando incontra Ted Sarandos, Remick gli chiede come mai tutti i suoi talents lo ringrazino a differenza di quanto accade a lui, e il boss della Netflix gli spiega “sono obbligati dal contratto, perché mai dovrebbero ringraziare gente come noi?” E’ una delle battute migliori di una serie che tocca il fondo della noia e della goffaggine artistica nell’episodio che vorrebbe omaggiare Chinatown, e non riesce a riprendersi neanche nel finale nel quale tutti i protagonisti sono sotto gli effetti della droga servita all’interno di cioccolatini. “E’ un buffet in stile vecchia Hollywood”, spiega Remick, prima di cantare “Movies, Movies” insieme ai colleghi. Se i personaggi avessero un minimo spessore questa conclusione risulterebbe straziante, ma invece ribadisce quanto The Studio abbia mancato di raccontare quello che la premessa esige, anche secondo i parametri di una satira: la perdizione di un uomo illuso di realizzare film di qualità all’interno di un universo in piena decadenza.