Kyiv e l’Europa. Volenterosi sì, ipocriti no



Il filo da seguire fra Trump e Putin e le carte da usare per limitare i danni (vale anche per l’Italia)

Non conosciamo i contenuti delle conversazioni in Alaska e soprattutto gli scenari che vi sono stati delineati, ma qualcosa si può provare a dire. Alcuni osservatori hanno parlato di fallimento dell’incontro perchè non ha prodotto un accordo. Altri hanno sottolineato che si è trattato di una vittoria di Putin, cosa indiscutibile viste le immagini che l’incontro ci lascia e i complimenti fattigli da Trump, e testimoniata dall’angoscia ucraina e dalla costernazione di molti paesi europei. La mia impressione è che un accordo sia stato raggiunto, dopo essere stato imbastito nei mesi scorsi e preparato da una riduzione calcolata (non un’interruzione) degli aiuti statunitensi che ha aggravato le difficoltà ucraine sul campo. Ma è anche vero che, come ha dichiarato Trump, un deal ancora non c’è perché ci sono punti su cui Trump e Putin possono chiudere solo col consenso, volente o nolente, dell’Ucraina e dei Volenterosi europei, come ha confermato Putin ammonendo questi ultimi a non ostacolare la “pace”. Lo dimostra con chiarezza l’incontro convocato in gran fretta da Trump a Washington, cui parteciperanno oltre a Zelensky Macron, Meloni, Merz, Starmer, il finlandese Stubb e von der Leyen.

Trump si è quindi assunto il compito di far ingoiare loro l’accordo, né poteva essere altrimenti. E se c’è poco da invidiare quelli che ne discuteranno con lui, la loro presenza a difesa di Zelensky è lodevole, oltre a essere un implicito riconoscimento della forza del blocco europeo e della necessità americana di non “perdere l’Europa”, e dunque della possibilità che hanno gli europei di modificare le linee dell’accordo per arrivare al deal. Al centro di questo accordo, più ampio di quello basato su un cessate il fuoco che anche Trump pareva condividere, vi sarebbe uno “scambio” di territori accettato dall’Ucraina – chiamata in realtà a cedere la sua più importante linea fortificata a est del Dnipro – che permetterebbe di parlare di pace perché legalizzerebbe un’occupazione illegittima di territori conquistati dopo un’aggressione che nessuno può approvare. Esso sarebbe affiancato dalla riabilitazione del ruolo della Russia – definita a suo tempo da Obama “potenza regionale” – da parte di Washington, una riabilitazione che Putin potrebbe vantare come una grande vittoria di immagine, e le immagini contano.

Si tratta per Putin di traguardi essenziali, perché gli permetterebbero di presentare, anche a se stesso, come una vittoria quella che resta una sconfitta, viste le dichiarate ambizioni iniziali, i costi sostenuti, la devastazione della società russa nata dopo il 1991 e la crescente dipendenza dalla Cina. Da questo punto di vista, il pellegrinaggio di Putin da Trump, ché anche di questo si è trattato, è l’ammissione della difficoltà di una situazione da cui la Russia, malgrado il sostegno della Cina, non può e non sa uscire.

L’idea di una pace fondata sul riconoscimento della prepotenza è certo molto triste, e probabilmente foriera di nuove guerre, vista la lezione che la prepotenza paga, una lezione ascoltata con attenzione per esempio nella Pechino che pensa a Taiwan. Ed è sicuramente vero che i paesi europei e l’Ucraina affrontano una crisi – che è anche, come sempre, una grande sfida – nella congiuntura e nelle condizioni più difficili possibili. Basti pensare al fallimento dell’Unione europea come soggetto internazionale, cosa che non è mai stata ma che ora appare a tutti evidente, come evidente è diventata la sua essenza di associazione non in grado di affrontare burrasche, anche perché gli stati membri hanno sempre voluto che così fosse; alla conseguente assenza di un soggetto unitario europeo capace di agire; al ritardo tecnologico e militare accumulato dai paesi europei negli ultimi decenni; alla mancata presa di coscienza della consunzione – provocata da cause oggettive e quindi “naturale” – del rapporto stabilitosi tra Stati Uniti e Europa occidentale nel 1945 e quindi dell’“Occidente” nato allora, che semplicemente non c’è più come soggetto anche se per fortuna ne esistono ancora grandi resti che sarebbe possibile usare; ma anche al naufragio dei democratici statunitensi, privi oggi soprattutto di idee, e alle difficoltà che incontra una politica razionale nelle condizioni di pur diverso declino che i membri di quel vecchio Occidente si trovano ad affrontare.

Ciò non toglie che i paesi europei riunitisi nei Volenterosi e l’Ucraina abbiano ancora carte da giocare, come dimostra la necessità che sia Trump che Putin hanno di loro – anche grazie a una resistenza ucraina che tre anni di guerra, l’enorme dispendio di vite e risorse russe, e il mutamento dell’atteggiamento statunitense non sono riusciti a spezzare – ma come indica anche il silenzio, forse perplesso, con cui tanti altri paesi del mondo, importanti e no, assistono agli eventi. E’ per questo che, come dicevo, il contenuto del possibile deal non è predeterminato e dipende da vari fattori: da quello che Trump desidera, che non è identico a ciò che Putin vuole; da quello che egli riuscirà a vendere domani e nelle settimane seguenti agli ucraini e ai Volenterosi (e quindi dalle concessioni che farà loro, che potrebbero superare quelle desiderate da Putin); e soprattutto dalla capacità di ucraini e Volenterosi di reggere, giocando abilmente le loro carte. Il loro comportamento e il destino di questo gruppo sono per noi europei la cosa più importante, perché dalla loro abilità e dai risultati che saranno forse in grado di conseguire dipende il futuro dell’Europa come soggetto indipendente.

In questa prospettiva, le trattative che porteranno forse a un deal sono due: quella che si è aperta tra Putin e i Volenterosi e l’Ucraina, mediata da Trump; e quella tra quest’ultimo e i Volenterosi, che riguarda il futuro dei rapporti tra i paesi europei, e quindi magari una Europa, e gli Stati Uniti, un rapporto che nel 1992 la neonata Unione europea ha impostato malissimo. E’ quindi certo che sia Putin che Trump fanno e faranno il possibile, mobilitando tutti i loro amici e alleati, per soffocare i Volenterosi, ma è anche vero che Trump sa non può perdere l’Europa (dell’Ucraina in sé gli importa, temo, assai poco). Quindi egli sa anche che qualcosa agli europei la deve concedere, che è quello cui si riferiva Putin quando li ha invitati a non mettersi di traverso.

Dal punto di vista europeo, il problema è quindi cosa possano fare i Volenterosi e l’Ucraina per limitare i danni e soprattutto preparare un futuro diverso, sia pure senza rompere perché quando non si ha la forza non si può rompere. Posto che il paragone con la Corea è a questo punto improprio anche per la parte che riguarda il cessate il fuoco, che tornerebbe di attualità solo se il deal non fosse chiuso (lo era nella sua essenza anche prima, perchè nessuno vuole due Ucraine, nemmeno Putin che pensa che gli ucraini siano russi che non sanno di esserlo), come osserva giustamente la maggior parte degli osservatori la questione centrale è quella delle garanzie che saranno offerte a un Ucraina che pare destinata a perdere circa il 20 per cento del suo territorio.

La prima di queste garanzie è il riconoscimento del diritto ucraino ad avere un esercito forte, bene armato e integrato con quello di alcuni paesi europei, anche se magari non attraverso la Nato. Penso che tre anni di resistenza abbiano guadagnato a Kyiv questo diritto, e che se non Putin, che ne farebbe volentieri a meno, Trump ne sia cosciente. Questo esercito quindi probabilmente vi sarà, forse sostenuto anche dalla presenza sul suolo ucraino di truppe di altri paesi europei, che sarebbe un’altra grande vittoria della resistenza ucraina, e magari persino da una garanzia americana. Queste tre condizioni permetterebbero di parlare di sostanziale vittoria ucraina, perché Putin, malgrado tre anni di guerra (ma in realtà undici se si conta dal 2014) “perderebbe” l’80 per cento dell’Ucraina, rispetto al 15 per cento che era disposto a lasciare a chi voleva prenderselo quando tutto è cominciato.

E’ probabile però che si discuterà anche di dove saranno stanziati questo esercito e le eventuali truppe europee a suo sostegno. Putin potrebbe premere per una linea al Dnipro (per secoli il confine tra territori controllati dalla Polonia e regioni cosacche spinte dall’antipolonismo a guardare a Mosca), lasciando Kharkiv, ma non Odessa, dentro una sfera di influenza anche russa. Punti solo apparentemente secondari come questo, o il controllo di grandi centrali nucleari come Zaporozhzhia, sono quelli su cui si potrebbero concentrare le trattative, che riguarderanno anche quali territori potrebbero essere dati agli ucraini in cambio dell’accettazione della perdita della Crimea e dei due governatorati del Donbas nella loro interezza (ricordiamo che una parte importante e fortificata di uno di essi è ancora in mani ucraine). In questo quadro non è improbabile che si finisca anche a parlare di Transnistria, come sarebbe nell’interesse dell’Europa.

Torniamo così agli interessi europei, alla capacità dei Volenterosi di difenderli e al ruolo fondamentale che potrebbe giocare la pur ridimensionata Unione europea nell’assistere la ricostruzione economica, politica e forse e soprattutto psicologica dell’Ucraina. Quest’ultima dovrebbe poter ottenere il diritto di associarsi a essa, e si spera che esso possa esserle rapidamente riconosciuto malgrado Orbán, che non sarebbe male trovare il modo di punire tenendo le porte aperte agli ungheresi. Potrebbe naturalmente anche succedere che a un accordo non si arrivi e che Putin provi a tirarla per le lunghe per guadagnare ancora più territori, profittando di un Trump presumibilmente pronto a scaricare la colpa sugli “europei”, chiamati a quel punto a sostenere loro Kyiv, e magari anche cessando gli aiuti a quest’ultima e riducendo, o addirittura ponendo fine alle sanzioni.

Supposto invece che si arrivi al deal e che i Volenterosi riescano a giocarvi un ruolo, rafforzandosi come soggetto politico invece di cadere sotto i colpi di Trump, Putin e dei loro alleati europei, questo soggetto politico in formazione sarà chiamato a riflettere su che fare del concetto di Occidente, dopo la certificazione della morte di quello nato nel 1945. Questa riflessione dovrà estendersi a come usare i suoi poderosi resti per costruire qualcosa di nuovo, a partire da una Nato che inizi a riformarsi tramite la nascita di un forte polo europeo dotato di autonomia anche strategica e quindi nucleare. Ciò vuol dire ripensare e gestire anche i rapporti con gli americani, perché il destino della Nato dipende ovviamente anche da Trump e i conti senza l’oste non si possono fare.

Le belle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi da Macron e Merz, coraggioso anche nel portare a Berlino Zelensky, lasciano sperare, ma la pressione per soffocare i Volenterosi nella culla sarà fortissima. Ed è comunque certo che tutti i politici europei dovrebbero sempre ricordare la grande lezione impartita da questa guerra che è appunto quella che chi fa i conti senza l’oste, contando su ciò che non è suo e magari anche promettendolo – come hanno fatto in buona fede anche bravi leader europei con Kyiv, cui è stato promesso un sostegno anche militare facendo di fatto conto su Washington – finisce male. Si tratta in fondo della radice del grande errore commesso nel 1991, quando si è deciso quasi senza discutere, perché conveniva, di lasciare agli Stati Uniti le chiavi della difesa europea, senza pensare alle implicazioni di cosa voglia dire lasciare ad altri le chiavi della propria abitazione.

Se i Volenterosi riusciranno a uscire rafforzati dalla crisi dovranno dunque essere pronti ad agire con moderazione ma anche con determinazione. Si tratterà di lavorare a una reale indipendenza dei paesi europei che la vorranno, senza rotture e cercando sempre la massima collaborazione possibile con Washington, ma anche senza chiudere gli occhi di fronte alla differenza anche di interessi che ormai ci divide da essa e quindi alla necessità assoluta di un nostro autonomo deterrente nucleare. E’ una differenza che dovrebbe spingere anche a guardare indipendentemente al mondo, a chi ci è più vicino prima di tutto (Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud, ecc., ma anche America Latina, India e mondo africano), senza però dimenticare la Cina che Trump ha voluto indirettamente umiliare in Alaska definendo – per compiacere Putin – una Russia che da essa dipende come il numero 2 del pianeta. Ma non siamo più nel XX secolo e la Cina è oggi l’unica vera altra superpotenza, cui si potrebbe presto aggiungere l’India, e non parlare direttamente con essa, riconoscendola, rispettandola, raggiungendo gli accordi che è possibile raggiungere nella pur grande diversità, nonché dissentendo quando necessario, è semplice autolesionismo.

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