Il lavoro matto e disperatissimo della artista svizzera per comporre Parallel Encyclopedia, flusso di analogie visive che catturano come un thriller. Il dialogo con Warburg e Jung, il potere della ricerca d’archivio
Un giorno, a metà degli anni zero, Batia Suter riceve un’email da una persona che le chiede che relazione ci sia tra il suo lavoro e i Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg. Aveva visto una bozza di quello che sarebbe poi diventato Parallel Encyclopedia, il suo primo libro pubblicato nel 2007, ormai leggendario. L’artista svizzera, nel suo studio di Amsterdam, è costretta a cercare il nome del grande studioso tedesco su Google. Non sa chi sia. Ci vogliono pochi secondi per capire la quasi sovrapponibilità dei due progetti. Oggi racconta al Foglio che è stato uno choc dal quale ha impiegato due settimane a riprendersi. “Che senso aveva continuare quello sforzo immenso se qualcuno aveva fatto la stessa cosa un secolo prima?”. Ordina libri, legge, studia. Quello che le si squaderna davanti è il mondo affascinante e misterioso dello storico e critico d’arte tedesco “amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima fiorentino”, che in vita aveva collezionato 65 mila volumi e 8 mila fotografie di opere d’arte. Negli ultimi anni della sua vita aveva iniziato a lavorare a un progetto – rimasto incompiuto – che consisteva in pannelli in cui raggruppava immagini di opere d’arte di tutte le epoche per mostrare come certi temi iconografici della cultura occidentale si ripetano nel tempo. Un progetto utopico e meraviglioso. Un nuovo modo di studiare la storia dell’arte attraverso le riproduzioni fotografiche. Un’avventura stroncata improvvisamente nel 1929 da un infarto.
Ma Batia, anziché farsi paralizzare dal confronto, trova in Warburg un compagno di strada. “Avevo trovato una persona che aveva familiarità con il mio modo di pensare. Ho cominciato a sentirlo come un fratello, per come era e per come ricercava. Ai tempi, lui doveva ordinare le immagini da ogni parte del mondo spendendo un sacco di soldi. Io, invece, avevo il privilegio di poter semplicemente scannerizzarle dai libri che collezionavo. Poi, certo, a lui interessava la cultura greca, il Rinascimento, il funzionamento dei corpi. Io non sono molto brava nel costruire teorie. Il mio, piuttosto, è un tentativo di far collidere cultura alta e cultura bassa”. In effetti, Parallel Encyclopedia, un volume di seicento pagine realizzato in cinque anni di lavoro matto e disperatissimo, più che uno strumento di studio e di analisi, è un’epopea dello sguardo, che dell’enciclopedico ha certamente la dimensione monumentale, ma sembra prendersi gioco del razionalismo di Diderot e compagni. Eppure, in essa si trova un amore sconfinato per il potere delle immagini: per la loro capacità di parlare un linguaggio proprio e dialogare tra loro, producendo nuovi significati inaspettati.
Oggi, quasi vent’anni dopo la pubblicazione di Parallel Encyclopedia, Batia Suter è un nome importante nel mondo della fotografia. In pochi, come lei, hanno saputo lavorare in modo così convincente e radicale sulla ricerca d’archivio, diventata uno dei filoni più amati e sviluppati nella fotografia contemporanea. Accanto alle pubblicazioni, Suter ha saputo tradurre la propria ricerca in installazioni monumentali utilizzando le sue collezioni di immagini. E’ stata finalista al prestigioso Deutsche Börse Photography Prize nel 2018, nello stesso anno ha esposto a Parigi a Le Bal, una delle sedi espositive più importanti per la fotografia, quest’anno ha vinto lo Swiss Design Award ed è presente con una mostra personale ai Rencontres de la Photographie ad Arles, intitolata “Octahydra”. Nell’attuale allestimento della collezione permanente lo Stedelijk Museum di Amsterdam è presente la sua installazione tratta da Parallel Encyclopedia, realizzata accostando 80 libri, aperti e sovrapposti, in modo che le fotografie dialoghino tra loro.
Per Suter la passione per le immagini nasce presto, a 14 anni. E’ allora che comincia a portare con sé una macchina fotografica ovunque vada. Passa ore a sviluppare e stampare rullini nel buio di una camera oscura. Si iscrive alla Scuola di design di Zurigo, poi si trasferisce per studiare all’Accademia di Belle Arti a Arnhem, nei Paesi Bassi. “Ho iniziato a dipingere e disegnare ingrandendo le mie fotografie. Proiettavo le immagini e le ricalcavo, un processo molto fisico e intenso. Ma era anche stressante – dovevo lavorare di notte per avere il buio per la proiezione e avevo bisogno di grandi spazi. Ho capito che non potevo andare avanti così fino a ottant’anni. Ma già allora non ero interessata tanto alla tecnica, pittura o fotografia, quanto a capire le immagini e il loro effetto su di me”. Al termine dell’accademia si iscrive a un master in tipografia. E’ la fine degli anni Novanta e Batia non ha confidenza con i computer, ma in quel corso scopre due programmi che avrebbero segnato irreversibilmente la sua carriera: Photoshop e QuarkXPress. Il primo per elaborare le immagini acquisite con lo scanner, il secondo per disporre le fotografie sulle pagine di un potenziale libro. “E’ stato allora che ho iniziato a collezionare libri usati. Ho cominciato a scansionare tutte le immagini che mi interessavano. Le stampavo su fogli A4 e le disponevo sul pavimento. Lavoravo in un open space e passava molta gente. A un certo punto, le persone si fermavano e mi chiedevano di poter avere delle copie delle immagini che le avevano colpite di più”.
Lì Batia capisce qualcosa di fondamentale: il suo pensiero procede per immagini. Ma non solo: ognuno ha le sue preferite a seconda del proprio passato e dai propri interessi. Eppure ce ne sono alcune che interessano a tutti. “Ci sono fotografie che hanno a che fare con qualcosa che ci accomuna. C’è qualcosa in esse che ha un potere particolare, in grado di rapirci”. E’ da questa idea che parte la sua ricerca. Quali sono queste immagini? Perché ce ne sono alcune che sono senza tempo? Vuole capire. Quella per le immagini diventa come una droga. Una sorta di dipendenza. E quando inizia a lavorare con il programma per l’impaginazione percepisce un nuovo senso di libertà. Poter sperimentare, con una facilità prima impensabile, accostando, scambiando, invertendo il materiale raccolto le appare come una frontiera per un’esplorazione che sembra non avere fine. Finalmente aveva trovato il suo strumento.
Il primo specchio con cui si apre Parallel Encyclopedia ci mostra opere di Julian Stanczak, Marina Apollonio, Richard Anuszkiewicz, Marcello Morandini, Tadasky e Masuho Ohno, tutti artisti legati al movimento della Optical Art. Sono geometrie sorprendenti, pensate per incantare o ingannare l’occhio di chi guarda. Girando pagina, invece, ci troviamo di fronte a immagini di plancton, in cui i microscopici organismi marini si dispongono con geometrie che richiamano quelle viste in precedenza. Nello stesso specchio, però, vediamo anche lo schema usato per i test di ripresa per tarare le scale di grigio delle telecamere, fatto di cerchi, linee e triangoli. Le forme si richiamano. Più avanti troviamo foto di pianeti, conchiglie, utensili della vita quotidiana. Pagine più in là, ecco ingrandimenti di fiocchi di neve e antichi cammei intarsiati con figure umane. Più si va avanti più ci si inoltra in un racconto che è fatto di analogie visive e significati condivisi. Senza percepire soluzione di continuità, a pagina 50, ci troviamo di fronte a esplosioni atomiche, portaerei americane, incidenti stradali. A pagina 300 vediamo uno sgabello del Settecento le cui gambe, nella tavola successiva, fanno rima con quelle dei buoi che trainano un aratro. Si apre così una sezione interamente dedicata ai cavalli: incisioni, dipinti di Velasquez e Simone Martini. C’è pure la foto di una tigre, con il suo domatore, placida sulle spalle di un elefante. Buster Keaton a fianco a una miniatura medievale. Dürer e una scultura assira. Arte africana, radiografie, cataloghi commerciali. Forza centripeta e centrifuga. Tintoretto e Yves Klein, Giotto e Walker Evans. Un viaggio affascinante, un flusso privo di narrazione, ma che riesce a catturare l’attenzione come la trama di un thriller. Dove andrà a parare la prossima pagina?
Dopo quello con Aby Warburg, c’è un altro incontro inaspettato nel percorso di Batia Suter. “Mia mamma fa la psicologa. Una volta, mentre parlavo con lei nel suo studio, curiosavo tra i suoi libri e mi è caduto l’occhio su L’uomo e i suoi simboli di Carl Gustav Jung. L’ho preso e l’ho iniziato a leggere”. Per l’artista è un nuovo choc: “Di nuovo, il suo modo di considerare le immagini era davvero vicino al mio. Lui parla di ‘Urbilder’, di immagini originarie sviluppate dall’inconscio e comuni a tutta l’umanità”. Jung studia sogni, fantasie, e simboli religiosi per mostrare la ricorrenza di certe forme immaginative universali. “E’ un pensiero molto forte, secondo il quale gli esseri umani reagiscono tutti allo stesso modo a determinate informazioni visive. Si tratta di qualcosa di naturale. E, per me, questo è molto chiaro. Sono convinta che esista qualcosa del genere, a un livello primitivo siamo stimolati da alcuni argomenti e alcune immagini e dalle loro qualità”. Eppure Suter sente qualcosa che non le torna: “Sapevo di non voler andare in una direzione psicologica o spirituale. Ho dovuto fare un passo indietro, fermarmi, per capire meglio che cosa stessi cercando”. Ma di nuovo, la crisi è l’occasione per una nuova ripartenza e Suter torna a immergersi nel suo mondo fatto di fotografie cercando di rendere più affinato il suo linguaggio, in modo che il filo invisibile che lega le sue composizioni diventi sempre più trasparente a chi guarda. Ma, alla fine, di che tipo di linguaggio si tratta? “E’ simile al linguaggio dei sogni. E’ veloce, associativo, non razionale. Creo connessioni inaspettate tra immagini per generare nuovi significati. Non cerco di spiegare tutto verbalmente, ma di provocare un’esperienza visiva. Un linguaggio che opera oltre le parole, toccando qualcosa di più fondamentale nell’esperienza umana”.
Nove anni dopo la pubblicazione di Parallel Encyclopedia, nel 2016, Batia propone Parellel Encyclopedia #2. Stesso formato, stesso metodo, stesso numero di pagine. Ma a differenza di tanti sequel cinematografici, il secondo volume regge il confronto. L’artista introduce, con parsimonia, il colore. L’impaginazione è leggermente più elaborata. C’è forse più humor. Ma di nuovo il flusso di migliaia di immagini riesce ad abbracciare tutto lo scibile umano, dal micro al macroscopico, dall’antico al contemporaneo. Da questo volume, come dagli altri che seguiranno, in particolare Radial Grammar del 2018, nascono installativi nei quali Suter fa dialogare le immagini e le loro relazioni con lo spazio. Può trattarsi di gigantografie, slideshow, proiezioni. “Le installazioni mi permettono di esplorare lo spazio fisico, di camminare tra le immagini. Qui le immagini diventano quasi come una ‘pelle’ della parete, interagendo con l’architettura”. Suter concepisce queste operazioni come “estrazioni” di uno o più capitoli dei propri libri e sono, in fondo, delle estensioni dei progetti editoriali. Se l’esperienza del libro è intima e ripetibile, quella nella “messa nello spazio” diventa qualcosa di fisico, dove lo spettatore si confronta con immagini più grandi del proprio corpo, che può osservare da vicino o da lontano. Accade allo stesso modo, in queste settimane, negli spazi bui del criptoportico di epoca romana nel centro storico di Arles, dove Suter è stata invitata ad esporre “Octahydra” in occasione dei Rencontres de la Photographie. Si tratta di un lavoro fatto di proiezioni in cui si riflette, da una parte, sulle forme dell’architettura, dall’altra su immagini di contenitori per alimenti, nei quali i pattern ritmici e architettonici evocano strutture di difesa e protezione.
Quello di Suter è un linguaggio che sfugge alla razionalità immediata, eppure è universalmente comprensibile. Come la musica, in fondo. Le immagini che raccoglie, per una sorta di richiamo ancestrale, non sono mere rappresentazioni, ma parole di un discorso che si comprende in modo quasi inconscio. Come lei stessa ammette, viviamo in un momento in cui, sommersi da un flusso costante di stimoli visivi, “la riflessione è quasi impossibile”. E queste immagini che lei usa, che vengono dal passato – un passato che ci arriva dalla carta stampata – appaiono forse come gli ultimi appigli per non lasciarsi andare alla deriva, in un contesto in cui è sempre più difficile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.