Se non bruci una bandiera in piazza, se non sfoggi un look all’ultimo grido, come puoi definirti artista? Il pudore ammazza le vendite. Ma esiste una medietà che non è qualunquismo, e merita anch’essa una “giornata mondiale”
“Penso a delusioni, a grandi imprese
a una thailandese
ma l’impresa eccezionale, dammi retta
è essere normale”.
Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”
Caffè pagato a chi ha sentito pronunciare o ha pronunciato almeno una volta, negli ultimi tempi, la parola “scappellotto”. Cena pagata a chi ne ha dato o ricevuto uno di recente senza denunciare ai carabinieri quel leggero scapaccione che attinge l’etimo al cappello, e le sue origini alla bonaria punizione di una castroneria assolvibile con siffatta esigua penitenza. I dizionari registrano anche la locuzione “venir promossi a scappellotti”, con il significato di avanzamento immeritato e tuttavia concesso a prezzo di un gesto più simbolico che fisico: una scoppola dietro la testa.
Nella società degli schiaffoni, virtuali o riversati dal mondo fisico dentro il contesto digitale, lo scappellotto non usa più: ne profusero maestri, genitori, confessori, allenatori, zii, dottori, compagni di classe e convittori (a questi ultimi però si potevano restituire). Era lo strano mondo della normalità, che non s’appellava a psicologi e gendarmi per sezionare la correttezza di un’imprecazione o sanzionare un buffetto quando non esuberavano ma rimarcavano un principio. Nessuno potrà cavarci il dubbio che persino il Salvatore, nella parte più lunga della vita, quella ignota, si sia beccato dalle sante mani di papà Giuseppe qualche scappellotto (chissà come si dice in aramaico): “Gesù a Nazareth, nei trent’anni che non conosciamo – visto che i Vangeli ci parlano solo dei suoi ultimi tre – ha vissuto la complessità della normalità: casa, lavoro in falegnameria, sinagoga come culto e come scuola, amici. Proprio questa ovvietà vissuta a fondo è stata per lui palestra di divinità, tempo e spazio per scoprirsi infinito”. Così afferma monsignor Giulio Dellavite in un saggio del 2023 dal titolo esplicito: Elogio della normalità. Lui la riguarda da teologo, ma anche un laico converrà che “elogiare la normalità vuol dire difendere la qualità alta della vita che si fa allergia alla mediocrità e intolleranza alla buzzurraggine”. C’era una volta un mondo in cui se captavi per radio una bella canzone ti chiedevi di chi fosse finché non appuravi che era, mettiamo, Rimmel di Francesco De Gregori. Difatti giusto cinquant’anni dopo piace ancora a parecchi, essendo diventata quel che si dice “un classico”.
Chi saprebbe invece canticchiare all’impronta, senza YouTube, il brano che ha vinto l’ultimo Festival di Sanremo; chi potrebbe citare a mente due linee di un testo di Elodie con la facilità con cui questo nome gli suggerisce un paio di cosce. Niente sessismo, per carità: pure di Achille Lauro si ricorda prima il look, poi cosa (e come) ha cantato. Non manca chi è più furbo e senza impelagarsi tra metriche e passaggi armonici ricorre alla risorsa regina: fare del palco un’occasione di performance. Tre ore dopo si parlerà di lui su siti, social e giornali. Nemmeno sarà costretto ad azzannare un disgustoso pipistrello come fece il satanico Ozzy Osbourne: gli basterà bruciare una bandiera a scelta, declamare uno slogan che trovi d’accordo un po’ di persone ma ne indigni altrettante, insultare un ministro o prodursi al suo indirizzo in un gestaccio ripescato dai prontuari liceali. Et voilà. Cento smartphone hanno filmato. La pubblicità è pagata dai fan. La polemica, virale, s’infiamma. Per tutto il resto, cioè la fatica artistica, provvidenziale è l’autotune. Benedetta tecnologia. Mica è come una volta, che le poetiche pietre scagliate dal cuore s’esprimevano tutte nella canzone. Se Guccini era incazzato scriveva L’avvelenata ma non la postillava con un supplemento informativo o performativo né si presentava in scena mascherato da burlesque. Non mordeva una gallina sul collo. Vestito da Guccini, si sedeva e cantava. E un De André? Qualche volta avrà bevuto un bicchiere di troppo, ma vestiva on stage una semplice camicia, ché tanto La guerra di Piero e La canzone di Marinella dicevano quel che dicevano senza bisogno del reparto abbigliamento. Se Faber ti piaceva come poeta era per la poesia. Non per la mise.
La polemica, virale, s’infiamma. Per tutto il resto, cioè la fatica artistica, provvidenziale è l’autotune. Benedetta tecnologia. Mica è come una volta, che le poetiche pietre scagliate dal cuore s’esprimevano tutte nella canzone
E’ che gli adepti della normalità, nel loro piccolo, quel tanto di gusto ce l’hanno, per cui fanno scarso caso alla ordinarietà delle apparenze: credono che un cantante si giudichi dalla canzone, un pittore dalla tela, uno scrittore dal libro e continuano a pensarlo in un’epoca in cui Philip Roth, con quei pulloverini a “v”, sarebbe un antipersonaggio con l’aggravante di sbraitare poco. Al pari di Borges – meschino – sempre in giacca e cravatta, di Picasso con le magliette a righe marinare, di Ungaretti dal basco stazzonato, di Montale con i pantaloni ascellari (niente glamour malgrado Ossi di seppia), di Quasimodo simile a un vicepreside di provincia (Oriana Fallaci incrudelì con lui in una memorabile intervista che sapeva di imboscata). Per non parlare di Salinger, che si dissolse proprio nell’assenza fisica perché un narratore non avrebbe bisogno di essere veduto. L’archivio degli “evviva la normalità” è ricco quanto quello degli stravaganti o di più, però si fonda sulla sottrazione e gli fa premio il buio.
Evviva Stefano D’Arrigo, che per quasi un ventennio s’incaponì su Horcynus Orca e quando infine lo pubblicò fu persino un bestseller malgrado le mille e passa pagine. Evviva Mina di cui neanche immaginiamo più la faccia offerta in sacrificio alla voce, evviva Elena Ferrante di cui ciascuno dice di conoscere e nessuno sa l’identità, evviva chi si consegna nella vita all’opera adesso che – considera monsignor Dellavite – “la personalità è sostituita da un account che mi costruisco per apparire come desiderio”. Ora a chi coltiva il silenzio fecondo è necessaria una dose di maggiorata convinzione o di cocciuta ritrosìa, anche perché il mondo non sembra più avvertire il bisogno di un nuovo Landolfi né di un redivivo Sciascia. E se pure aveste Il barone rampante nel cassetto ma vi presentaste con le sembianze di un Calvino vi snobberebbero. Proponetevi piuttosto mascherati da Batman, da guru della montagna, da folkloristico beone. Perché un libro mediocre si può sempre rimaneggiare in cottura, ma un tizio poco telegenico è un incurabile che va bloccato per tempo a casa sua.
Il pudore, si sa, falcidia le vendite.
Chi eguaglia iniquamente l’uomo normale all’uomo qualunque, o a quello senza qualità, gli fa l’ennesimo torto. Il normale non è qualunquista. E’ uno che s’impegna. Voi non lo vedete ma sta sudando al mixer per salvare il concerto al cantante stonato e tuttavia popolare per gli appelli alla pace o alla droga per tutti; voi non lo sapete ma il normale è il miglior dentista della zona e purtroppo non ha sostituito le stampe di Piranesi con la musica psichedelica in sala d’aspetto, sicché il collega maldestro che però s’è affidato all’architetto gli continua a scippare pazienti; il normale è il redattore editoriale che rimette a posto le incongruenze del romanziere in costume e viene omesso nei ringraziamenti; è il tizio che va a correre al parco con una t-shirt semplicemente bianca, rara ormai quanto gli scappellotti o la brillantina di Happy Days; normale è il manager, o l’operaio, che esce di casa a fare il pil (proprio il prodotto interno lordo) quando d’inverno è ancora buio e gli eroi mediatici dormono sonni agitati perché la sera prima hanno raccontato per l’ennesima volta in tv come sia travagliata la loro vita interiore. E’ che impera su di noi il narcisismo dei cuori digitali: monsignor Dellavite paragona a un demone “la saturazione del proprio spazio e del proprio tempo. Si è talmente pieni di Sé che manca l’aria. Ci si ritrova logorati e assuefatti, dentro la gabbia asfissiante dell’‘io sono quello che ho fatto’”.
Chi eguaglia iniquamente l’uomo normale all’uomo qualunque, o a quello senza qualità, gli fa l’ennesimo torto. Il normale non è qualunquista. E’ uno che s’impegna
Magari fosse solo così: piuttosto torna in mente Sherlock Holmes, che a conclusione di Uno studio in rosso si sfoga consegnando al dottor Watson una frase troppo vera perché non venga voglia di ripudiarla: “A questo mondo non conta quello che si è fatto, conta piuttosto quel che si riesce a far credere alla gente di avere fatto”. Quanto futuro anticipava. In altre parole, inventate anche voi di avere il “terzo occhio” mistico come fece il falso tibetano Lobsang Rampa negli anni Cinquanta del secolo scorso; o raccontate di avere ricevuto una iniziazione virile presso un’etnia dell’Europa orientale che vi create di sana pianta; o perlomeno confidate – a tutto il mondo – che per sfogare le amarezze siete stati muratori in America sotto falso nome wasp, anche se vi arrabattate solo con un po’ di broken english. Più siete inverosimili, più sarete creduti. Che peccato la Legione straniera non si porti più (comunque era assai scomoda). Quale sciupìo che su un cargo battente bandiera liberiana si sia già imbarcato il verdoniano Manuel Fantoni, bruciando le fantasiose possibilità del comparto nautico. Ad ogni modo, chi non ha cuore di spararla troppo grossa s’inventi almeno un’infanzia difficile, perché nulla è così poco perdonabile di un passato da bambino qualsiasi. Con uno sforzo di memoria e di affabulazione verrà pur fuori qualche molestia a scuola, un trauma rimosso, l’indelebile “non detto” di un nonno che ha intaccato tutta la stirpe. Qualche elemento, insomma, che premonisca un ritratto dell’artista borghese da adulto più colorito e fosco di chi rievoca solo la noia dei compiti a casa, l’euforia per Babbo Natale, le zuffe a ricreazione, un maestro antipatico però non pedofilo e le ginocchia sbucciate.
Ora, qualche unghiuto pregiudizio impedisce che fra tante Giornate mondiali dedicate a tutto e tutti non si sia ancora pensato di intestarne una all’uomo ordinario, colui che avrebbe vergato un insipido “nessuno” sotto la casella “segni particolari”, sia che fosse un povero stupido sia un povero Kafka o un abitudinario alla Salgari: ogni mattina in biblioteca, poi di nuovo a casa a scrivere. Oppure un Giambattista Vico disturbato dalla prole mentre lavora alla Scienza nuova (che il tipografo smarrisce e lui deve rifare da capo mentre la moglie pensa: “chist’è pazzo”). O, salendo nell’empireo, un Bach intestardito alla tastiera per un’arte della fuga che capisce solo lui. O, ridiscendendo, qualsiasi anonimo tra gli angeli senz’ali dell’anagrafe, normalmente afflitto dalle asperità dell’esistenza ma che riversa il suo “Io” nel far bene qualcosa. Come il (vero) muratore conosciuto da Primo Levi ad Auschwitz, che naturalmente odiava i nazisti ma assemblava i mattoni a regola d’arte per rispettare se stesso anche in un campo di sterminio.
Ci vorrebbe sì una Giornata mondiale, almeno una all’anno, per chi lesina sulle apparizioni, sull’ammirazione, sugli appelli di solidarietà e sulla commiserazione (naturalmente, di se stesso).
Era all’ora del pil, quando per alzarsi ci vuole, diceva Napoleone, “il coraggio del mattino presto”, che uscì di casa per quarant’anni la patrona laica di ogni regular guy o regular woman: santa Vincenza Enea Gambogi, mitica segretaria di Giulio Andreotti (un aggettivo che avrebbe aborrito) prendendo tre autobus per arrivare in ufficio prima del molto mattiniero principale. Oggi non aprirebbe un profilo sui social, continuerebbe a non avere una pubblica faccia né un’auto blu, che pure non le si negherebbe.
Ci vorrebbe sì una Giornata mondiale, almeno una all’anno, per chi lesina sulle apparizioni, sull’ammirazione, sugli appelli di solidarietà e sulla commiserazione (naturalmente, di se stesso)
Più o meno negli stessi anni e alla stessa ora di santa Vincenza Enea, il comandante Achille Lauro già viceré effettivo di Napoli, oggi offuscato nei ricordi per l’omonimia con il cantante, usciva nudo in balcone d’estate e d’inverno per gli esercizi ginnici con cui iniziava la giornata. Padrone di una flotta, si sentiva a suo agio quando poteva stare in brache e canottiera (bianca), che da vecchio marinaio sapeva portare molto meglio di Umberto Bossi.
La verità è che puoi essere depositaria delle segrete carte del più potente uomo politico, puoi diventare un ricchissimo armatore o agguantare il Premio Nobel, ma se il sommesso metodo del fante ti appartiene più dell’estro vanitoso dell’ussaro bardato resterai sempre impegnato nel corpo a corpo sul terreno invece che al galoppo sul destriero (bianco). Quando, con l’esilio a Sant’Elena, terminarono le immani battaglie “sotto le aquile effimere ma immortali del grande imperatore”, il balzachiano dottor Benassis si ritirò a fare il medico di campagna: la sua ambizione era curare, come quella di chi scrive è lottare con la pagina vuota e di chi compone è propagare preziose melodie. All’ora del pil, mentre i cavalli e le scorte degli eroi da social sonnecchiano nelle rimesse, Ennio Morricone intraprendeva l’immancabile routine di felice forzato della musica ma dopo la ginnastica, come il comandante Lauro. L’ispirazione non casca mai dal cielo: ci si tiene in forma per andare a prendersela anche se costa altre venti flessioni. Anche se per promuovere un film o una serie tv vale più una diatriba azzeccata che una sontuosa colonna sonora o una sceneggiatura come dio comanda, soprattutto se difettano i talenti per l’una e l’altra.
Jean-François Lyotard sosteneva che la condizione postmoderna sia caratterizzata dalla incredulità verso le grandi narrazioni. C’è il sospetto che sia anche contrassegnata dal timore della normalità: ormai, se per il pomeriggio è previsto un acquazzone comune lo smartphone segnala dal mattino “allerta meteo” (giallo, arancione, rosso). Altrimenti c’è un’allerta caldo o per il vento, la grandine, la neve. Il vocabolo, speso fino a poco tempo fa solo in circostanze rare, è penetrato nella quotidianità assieme a un altro anche più minatorio: “allarme”. Termini mutuati dal gergo militare per scongiurare o rispondere a un attacco nemico, ma che l’abuso rende vieppiù scialbi negli effetti psicologici. Fino alla parola “emergenza”, anch’essa di uso pluriquotidiano. Proprio mentre scriviamo la stanno accreditando al virus del Nilo, perché è inutile far finta di niente: la zanzara comune ha messo sotto attacco la nazione (qualcuno, fidatevi, ha scritto così).
Guai a lasciarci vivere da persone normali queste nostre faticose, oziose, dolorose o persino gioiose giornate. Non ce lo perdonano più.