Perché il rapporto tra Anas al Sharif e Hamas non può essere liquidato come una questione di contesto professionale
Anas al Sharif “lavora in un contesto in cui le relazioni con Hamas sono una necessità e le minacce di Israele violente e quotidiane”, rilanciava ieri su X il Post, in relazione a un suo al solito ben argomentato articolo sul giornalista di Al Jazeera. Il contesto in cui “le relazioni con Hamas sono una necessità” è argomento serio e interessante, a patto di svolgerlo fino in fondo. Anas al Sharif era un giornalista (uccidere i giornalisti è un crimine, certo) ma era anche un militante, sostenitore e secondo le accuse collaboratore dei terroristi di Hamas. Di lui è noto il post inneggiante agli “eroi” del 7 ottobre, sono noti i suoi selfie sorridenti con Sinwar e i vertici di Hamas. Chissà che cosa sarebbe successo, che cosa avrebbero scritto i media difensori della buona causa della legalità, se Bruno Contrada avesse messo online selfie con Totò Riina. Anche “il contesto” di chi combatteva la mafia era complesso e pericoloso. Eppure Contrada, o il generale Mori, sono stati perseguiti per decenni dai pm della Trattativa e altri scarpinati di casa con accuse di collusione per aver agito in un “contesto” minaccioso. Ma loro non hanno mai scattato selfie sorridenti con i boss. Non si uccidono i giornalisti, ma il rapporto tra al Sharif e Hamas non può essere liquidato come una questione di contesto professionale.