La natura inospitale e feroce dell’Alaska di Herzog. Con gli orsi. Un monito

Una wilderness malvagia, un continente di ghiaccio e fango dove l’uomo civilizzato va a morire (letteralmente) della propria stupidità romantica. Il documentario “Grizzly man” come grande metafora di questo summit tra Trump e Putin

Insomma, bisogna parlare di questo summit in Alaska. Di Trump e Putin che si danno appuntamento nel Grande Nord, come in un western di John Huston, una sfida tra i ghiacci, un regolamento di conti, un’imboscata forse. L’Alaska come Grande Metafora, Grande Palcoscenico e terra di Nessuno dove tutto è possibile. Per darsi un tono nelle conversazioni geopolitiche si possono citare i tanti film che celebrano questo ultimo lembo d’America selvaggia. Sean Penn, per esempio, che ai tempi dell’Alaska di Sarah Palin si perdeva nelle lande fredde e desolate alla ricerca di una verità che lo distrugge (il film era “Into the Wild”, un “On the Road” versione frozen con l’idea dell’Alaska come specchio dell’anima). C’è Liam Neeson contro i lupi in “The Grey”. C’è l’Alaska immortale di Chaplin, ricostruito in California, in quel capolavoro che è “La febbre dell’oro”, coi pionieri del Klondike e il miraggio dell’oro nascosto tra montagne impervie come oggi litio, titanio, grafite nelle “terre rare”.

Si possono recuperare perle trash come “Sfida tra i ghiacci” con Steven Seagal, thrillerone con sottotrama ecologica e attivisti Inuit che si oppongono alle trivellazioni, o commedie come “Alaska” con Leslie Nielsen: perché tra i ghiacci, nella bianca immensità, vengono bene anche trame nonsense e ribaltamenti di ruoli, come avevano capito i Coen di “Fargo” (e anche qui: chi potrà distinguere il negoziatore dal conquistatore, il diplomatico dal predatore?). Ma se davvero volete fare bella figura, il film da citare come grande metafora di questo summit è uno solo: “Grizzly man” di Werner Herzog. Un documentario magnifico uscito giusto vent’anni fa (lo trovate su Prime).

L’Alaska di Herzog non è quella del National Geographic. E’ una wilderness malvagia, un teatro dell’assurdo dove la natura si rivela nella sua più cruda indifferenza. Herzog racconta la tragica pantomima dell’amore interspecifico tra l’uomo e l’orso, cioè la vicenda assurda e vera di Timothy Treadwell, attivista per i diritti degli animali che va a vivere con gli orsi grigi del parco nazionale d’Alaska e alla lunga finisce sbranato con la fidanzata da una di quelle creature che credeva amiche. L’Alaska di Herzog è un personaggio dickensiano nella sua mostruosa grandezza: un continente di ghiaccio e fango dove l’uomo civilizzato va a morire, letteralmente, della propria stupidità romantica, ignorando ogni segnale di pericolo con l’ostinazione di un innamorato respinto. L’idea di ricomporre la barriera tra civiltà e natura si infrange sulla terribile scoperta che quella barriera esiste per una ragione molto concreta: dall’altra parte ci sono i denti. Mi pare superfluo aggiungere che, come ricorda ChatGPT, l’orso è uno dei grandi simboli della Russia, “storicamente utilizzato come metafora geopolitica per rappresentare la forza, la resistenza, talvolta la natura selvaggia o imprevedibile della Russia nelle rappresentazioni occidentali, specialmente durante i periodi di tensione internazionale”. Se le cose si mettono male, potrete sempre dire: Herzog ci aveva avvertito.

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