Più guerra o il ritorno al negoziato. Come interpretano gli israeliani il piano di Netanyahu nella Striscia

Nonostante il 70 per cento della popolazione sia favorevole a un cessate il fuoco, i numeri dei sondaggi tendono a mutare. Continua la divisione sul controllo della Striscia e sul ritorno di tutti gli ostaggi

Tel Aviv. Il 24 luglio 2025 rimarrà una data spartiacque nel conflitto tra Israele e Hamas, che ha rifiutato la proposta di cessate il fuoco negoziata dall’inviato americano per il medioriente Steve Witkoff, determinando un collasso diplomatico tra le due parti. Tanto da spingere Witkoff a ritirare la delegazione statunitense da Doha e il gabinetto di guerra israeliano a proseguire l’intervento militare nell’enclave, occupando militarmente Gaza City. La decisione spinosa è stata portata avanti nonostante la mancanza di appoggio del capo di stato maggiore Eyal Zamir, che ha dichiarato pubblicamente come l’ingresso nel quartier generale di Hamas potrebbe compromettere la vita dei 20 ostaggi ancora vivi, ragione per cui l’esercito non era entrato fino ad oggi a Gaza City – dove si trovano i rapiti – che potrebbero venire giustiziati, come era accaduto lo scorso anno quando un gruppo di soldati raggiunse un tunnel in cui erano tenuti prigionieri sei ostaggi a Rafah. Per questo motivo il Forum dei familiari degli ostaggi, oltre che a scendere in piazza tutti i giorni come sempre, sta spingendo in tutti i modi per promuovere uno sciopero generale nazionale. “E’ la prima volta in trent’anni di carriera giornalistica che mi trovo ad assistere a una tale spaccatura, non solo all’interno della società, ma anche tra le più alte istituzioni israeliane”, commenta Nadav Eyal, editorialista di Ynet e vincitore del Sokolov Award, equivalente del premio Pulitzer israeliano. “Non era mai accaduto che il capo di stato maggiore e il governo fossero tanto in disaccordo, e questo non fa che riflettere anche la viscerale spaccatura sul piano internazionale” sottolineando come l’occupazione militare dell’enclave comporti, oltre a tutti i problemi di natura strategica, anche quelli di ordine diplomatico, con alcuni paesi europei che, invece di condannare Hamas, non fanno che legittimarlo.



“Anche per questo il gruppo terroristico va fermato”: sono queste le parole e la differente prospettiva offerte da Amit Segal, noto volto della televisione israeliana, commentatore politico del notiziario di Canale 12, ed editorialista del quotidiano Yedioth Ahronoth. Secondo Segal, poiché Hamas ha chiaramente lasciato intendere di non avere alcuna intenzione di restituire gli ostaggi, ora l’esercito si trova nell’unica condizione possibile: quella di dover eliminare il gruppo terrorista in modo definitivo. Segal sottolinea come, rispetto alle perplessità del capo di stato maggiore, e stando alle recenti dichiarazioni del premier Benjamin Netanyahu nel corso della conferenza stampa di domenica per illustrare il piano contro Gaza City, probabilmente si assisterà ad una sorta di “compromesso”. Come ha chiarito il primo ministro durante l’incontro con i giornalisti, l’intervento previsto a Gaza non consisterebbe in un occupazione di lungo termine, ma in un’operazione volta a separare la popolazione civile da Hamas, tanto da aver esplicitato che si tratterebbe di un percorso a più fasi che dovrebbe risolversi entro il 7 ottobre 2025.


Cinque sono stati i punti principali esplicitati dal premier. In quest’ordine: il disarmo definitivo di Hamas; il ⁠ritorno di tutti gli ostaggi; la ⁠smilitarizzazione di Gaza; la garanzia della ⁠sicurezza dei confini e, infine, la costituzione di un governo di transizione che non sia amministrato né da Hamas, né dall’Autorità nazionale palestinese, e tanto meno da Israele, ma dai paesi arabi interessati al processo di normalizzazione della regione e alla ricostruzione, sia infrastrutturale sia politica, di una nuova Gaza, per poter finalmente dare inizio al dopoguerra. “Affinché questo accada – continua Segal – risulta ormai necessaria l’occupazione militare di Gaza City, per via del ruolo simbolico che la città riveste, e per fare in modo che quello che era il quartier generale di Hamas diventi il principale centro di distribuzione di aiuti gestiti dal Ghf (Gaza Humanitarian Foundation), al fine di separare in modo definito la popolazione civile da Hamas e terminare una volta per tutte questo conflitto”. “Tuttavia – argomenta Eyal – fino a oggi non si è davvero riusciti a separare gli uni dagli altri, essendo la popolazione civile ancora fortemente dipendente da Hamas, come è stato dimostrato dalla recente crisi umanitaria, proprio a causa delle difficoltà riscontrate dal Ghf nel corso della distribuzione degli aiuti, presi costantemente d’assalto dai miliziani del gruppo terrorista. Anche per queste ragioni il paese è sempre più stanco e sfiduciato nei confronti del governo.”



“Nonostante il 70 per cento della popolazione si dichiari favorevole a un cessate il fuoco – conclude Segal – i numeri dei sondaggi tendono a mutare in base alle specificità delle domande sollevate. Stando ad un recente sondaggio del Jppi, quando si chiede se il cessate il fuoco non debba garantire il ritorno di tutti gli ostaggi o se debba implicare un controllo della Striscia da parte di Hamas – come il gruppo vorrebbero per il raggiungimento di un accordo – il consenso precipita al 46 per cento, confermando la divisione in due del paese”.

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