Miliardi di dollari, assunzioni stellari e una guerra di chip che ridisegna il potere tecnologico globale. A vincere, per ora, è chi vende pale e picconi, Nvidia
Apple fu la prima azienda a raggiungere una capitalizzazione di mercato, cioè il valore complessivo delle azioni in circolazione di una società, da mille miliardi di dollari. O, come dicono in inglese, trilion, da non confondere con l’italiano trilione, che però indica il milione di miliardi. Successe nel 2018. Ad appena sette anni di distanza da quel momento, oggi sono nove le aziende tecnologiche che valgono almeno un trilion di dollari. E diciamo “almeno” perché Nvidia, l’ultima arrivata nel club d’élite della Silicon Valley, ne vale quattro di trilion, mentre Microsoft tre (proprio come Apple, che nel frattempo è triplicata di valore). Uno sconvolgimento simile – l’eccezione che diventa norma in una manciata di anni – non si può giustificare solamente tirando in ballo le intelligenze artificiali e la corsa all’armamento senza precedenti che hanno innescato. Del resto, nel 2018 ChatGPT era solo una bizzarra sequenza di caratteri, il metaverso era lontano anche nelle fantasie di Mark Zuckerberg e Apple sedeva sul trono del settore tecnologico grazie alle vendite di iPhone.
Quante cose sono cambiate da allora. La pandemia ha velocizzato ed estremizzato processi che si sarebbero manifestati con passo diverso, ha cambiato abitudini personali e professionali, consolidando il peso del settore digitale su tutto il resto. A conferma di come la situazione odierna sia diversa da quella del 2018, di questi tempi Apple viene criticata – e forse sottovalutata – perché da un lato le vendite di iPhone sono in declino da anni e, dall’altro, non ha finora dato prova di avere una strategia per le AI degna del suo nome. Ci ha provato, con Apple Intelligence, ed è finita per mandare in onda spot che pubblicizzavano incredibili funzioni di AI che non sono ancora tecnicamente possibili (e chissà quando lo saranno). Nell’ultimo anno, l’azienda è stata costretta ad abbassare le aspettative e rimangiarsi la parola data. Questo mese Tim Cook, ceo dell’azienda, ha promesso grandi novità, e c’è chi parla di acquisizioni di qualche startup o di laboratori AI per dare nuova linfa a Siri, l’assistente vocale che dal 2011 a oggi è rimasto più o meno lo stesso. Nel momento in cui scriviamo, però, nulla si è ancora mosso.
A muoversi, in compenso, è stata Meta, altro gigante tecnologico statunitense che nel primo biennio post-ChatGPT si era mosso tardi e con goffaggine, e che ha passato l’estate ad assumere ex dipendenti di OpenAI, tra cui Shengjia Zhao, il co-creatore di ChatGPT, per guidare un nuovo team il cui obiettivo è chiarissimo, almeno a parole: sviluppare quella che Zuckerberg ha battezzato “superintelligenza”. Facile, no? A luglio Meta ha speso più di 14 miliardi di dollari solo per acquisire Scale AI, un’azienda specializzata nella preparazione di grandi archivi di contenuti per addestrare le AI. Poi sono arrivate le assunzioni, di cui si è parlato soprattutto per le cifre strappate da alcuni sviluppatori e ricercatori, gente che viene pagata più di calciatori come Cristiano Ronaldo. La Borsa sembra aver gradito il blitz di Meta, a giudicare dall’andamento vertiginoso del titolo Meta nelle ultime settimane, salito del 58 per cento nell’ultimo mese (dati aggiornati al 5 agosto). In tempi di trilion, però, la Borsa non è tutto: o meglio, sia chiaro, nella pratica è tutto, ma un settore come quello delle AI è talmente ricco da permettere ad alcuni dei suoi campioni di essere “choosy”, per citare l’ex ministra Fornero.
Nonostante le incursioni di Meta siano state efficaci e spietate abbastanza da turbare OpenAI, che le ha paragonate a una rapina in casa (del resto OpenAI è stata la principale vittima della brama di Zuckerberg, che sembra aver provato a svuotarla dall’interno, non riuscendoci), non tutti i ricercatori hanno ceduto alle lusinghe di Meta. Zuckerberg ha personalmente contattato molti membri del dream team globale di esperti delle AI, con offerte faraoniche e la promessa di avere tutta Meta dalla loro parte. Zuck, del resto, è lo stesso che ha annunciato investimenti da 30 miliardi all’anno in infrastrutture per le AI: tra tutti, il datacenter “grande quanto Manhattan” che il ceo in persona ha da poco promesso. Recentemente Alex Heath, giornalista tecnologico del sito The Verge, ha raccontato di aver parlato con un ricercatore che non avrebbe nemmeno risposto alla mail di Mark Zuckerberg. Il tutto, secondo Heath, per motivi etici: “Non posso lavorare per quel tizio”, avrebbe detto il ricercatore. Siamo al ghosting, insomma.
Tutto questo potrebbe far sembrare Meta un’anomalia di questo panorama ma in realtà la manovra a sorpresa zuckerberghiana si spiega con il percepito ritardo dell’azienda, e la voglia di non perdere il treno delle AI, soprattutto dopo il tonfo pubblico del metaverso negli anni pandemici. Ad aumentare la pressione su Zuckerberg c’è anche il fatto che tutte le altre grandi sorelle hanno fatto lo stesso, in termini di investimenti miliardari per le AI. Google (2,3 mila miliardi di capitalizzazione di mercato) investirà 85 miliardi di dollari per l’infrastruttura cloud e i datacenter solo nel 2025: sono 10 miliardi in più del previsto e una cifra di poco inferiore alle sue entrate totali nel secondo trimestre di quest’anno, come ha notato il Guardian, in cui Google ha incassato 94 miliardi di dollari.
Sundar Pichai, ceo dell’azienda, è forse preoccupato da questi enormi sforzi? Si direbbe di no: “Le AI stanno avendo un impatto positivo in ogni parte del nostro business”, ha detto recentemente ai suoi investitori. Quanto ai frutti di questi investimenti, potrebbero volerci anni per vederli, ha concluso. Insomma, abbiate fede. Amazon, invece, investirà 100 miliardi di dollari nel 2025, la maggior parte dei quali nelle AI e nella divisione cloud, cioè AWS, una delle sezioni più redditizie del gruppo: un incremento di 20 miliardi rispetto all’anno scorso. Difficile dire con precisione quanti soldi verranno spesi in tutto in questo settore: secondo una stima, quest’anno sarebbero già stati investiti 155 miliardi di dollari, più di quanto il governo statunitense abbia investito nei servizi sociali, nell’educazione e nel sostegno alla disoccupazione nell’anno fiscale in corso.
In un articolo per il Wall Street Journal, l’investitore Paul Kedrosky ha notato come la spesa per l’infrastruttura legata alle AI abbia già superato, come percentuale del pil, la spesa per l’infrastruttura di internet della bolla dot-com, confermando i timori di chi teme che questa corsa agli investimenti sia sfuggita di mano, e possa risultare in una bolla. Il dot-com è uno spettro difficile da scacciare, da quelle parti: alla fine degli anni Novanta, molte aziende legate a internet arrivarono a quotazioni stellari, ma i tempi non erano ancora maturi. Le idee c’erano, gli utenti no: quelli sarebbero arrivati negli anni successivi. Moltissime startup che si erano credute miliardarie (all’epoca il trilion era ancora un termine da matematici, o Paperon de’ Paperoni) svanirono in pochi giorni; alcune resistettero e tornarono alla ribalta qualche anno dopo. Come Amazon, ad esempio. O Google. Altre passarono alla storia e da loro infestano gli incubi dei fondatori – come Pets.com, ad esempio.
Secondo Kedrosky, inoltre, una spiegazione possibile della tenuta dell’economia statunitense nonostante l’incertezza dei dazi imposti da Donald Trump sarebbe proprio questa spesa, che starebbe fungendo da “programma di stimolo del settore privato”. Neil Dutta, responsabile della ricerca economica presso il centro studi newyorchese Renaissance Macro Research, ricorda invece che la spesa in conto capitale (o capex, cioè l’ammontare di flusso di cassa che un’impresa impiega edifici, terreni, impianti o attrezzature) per l’AI ha contribuito più alla crescita dell’economia statunitense negli ultimi due trimestri rispetto all’intera spesa dei consumatori. A proposito di dazi, un altro economista, Scott Galloway, ha suggerito nel suo podcast (“Pivot”, con Kara Swisher) che l’ottima performance di Meta degli ultimi mesi sia in parte motivata dall’incertezza degli investitori di fronte al caos trumpiano: dove mettere i propri soldi quando non si sa ancora che dazi si dovranno pagare in decine di paesi? E’ forse il caso di puntare sulla siderurgia, l’automotive, l’agricoltura – oppure meglio investire su Meta, i cui servizi sono globali ma eterei, e quindi esenti da dazi?
La storia della Silicon Valley è la storia della California. E la storia della California è fatta di corse all’oro, di arricchimenti improvvisi, Eldorado veri o presunti. E bolle. C’è un vecchio detto che pare sia nato proprio nel Golden State: uno dei tanti aforismi che viene attribuito a Mark Twain ma è in realtà di origine ignota. Dice così: “Durante la corsa all’oro, è un buon momento per essere nel business del piccone e della pala”. Insomma, di fronte a una corsa all’oro ti puoi inzaccherare i pantaloni a setacciare per giorni interi il fiume American, oppure puoi approfittare dei gonzi aspiranti ricchi e vendere umili strumenti, magari a carissimo prezzo. All’epoca della gold rush, si parlava di picconi e pale, appunto; ma oggi?
Oggi questi strumenti hanno una forma molto più discreta e una sofisticatezza rara. Si chiamano GPU (o unità di elaborazione grafica) e le produce Nvidia, un’azienda fondata nel 1993 che, come ha scritto il New York Times, ci ha messo trent’anni ad arrivare a un giro d’affari da mille miliardi, e solo due anni per arrivare a quattro trilion. L’idea originale era di produrre schede in grado di offrire una grafica migliore e più veloce per i videogiochi: ora sembra un’ovvietà ma prima di Jensen Huang, fondatore e capo di Nvidia, nessuno ci aveva pensato. Da allora l’azienda è cresciuta, dominando il settore che aveva di fatto inaugurato. Le GPU di Nvidia fecero parlare di sé anche durante la pandemia, all’apice della febbre crypto, perché venivano usate dai miner di Bitcoin e altre criptovalute.
Poi è arrivato ChatGPT, alla fine del 2022, il chatbot che ha aperto questa nuova corsa all’oro, e da allora Nvidia è dietro a ognuno di questi investimenti infrastrutturali. Pare che Elon Musk, tra le molte cose capo anche di xAI, azienda del settore AI, abbia letteralmente implorato Huang per avere le GPU necessarie al lancio del servizio, in un momento in cui la domanda era già altissima. Altro che corsa all’oro, quindi. A quei tempi, almeno, qualunque pala andava bene, mentre oggi l’unico modo di sviluppare modelli linguistici avanzati è usare i setacci, pardon, le GPU di Nvidia, l’azienda che è al centro di questi continui investimenti tecnologici, grandi abbastanza da trainare la prima economia del mondo. Almeno per ora.