Tre scogli sulla via del riconoscimento dello stato di Palestina

Problemi: la richiesta del ritorno dei profughi (del ’49) in Israele, i coloni messianici in Cisgiordania, i palestinesi che non si sentono un unico popolo

Vi sono per lo meno tre aspetti su cui riflettere in merito al riconoscimento dello stato di Palestina. Oltre alla questione dei confini, del tipo di governo, della condanna di Hamas, della demilitarizzazione del nascente stato, quali soluzioni sono state pensate per risolvere l’intramontabile richiesta palestinese del ritorno in Israele dei profughi e dei loro discendenti, il problema dei coloni messianici in Cisgiordania, il diritto dei palestinesi di non riconoscersi tra loro come unico popolo? Tre aspetti che vanno tragicamente messi in relazione con quanto sta accadendo ora nella Striscia. Senza una simile pressione internazionale, Netanyahu avrebbe preso la decisione di portare Idf allo scontro finale con Hamas? Se questo avverrà probabilmente sarà un massacro – per i terroristi certamente, ma anche per i soldati israeliani, per gli ostaggi, per i civili palestinesi – e la prima responsabilità sarà di chi ad Hamas voleva regalare uno stato.



Di fatto, tra le diverse questioni che avrebbero dovuto essere messe su un tavolo di trattativa negoziale, non possiamo dimenticare che uno dei punti su cui l’accordo tra israeliani e palestinesi si è arenato negli anni può essere ricondotto all’inamovibile richiesta palestinese del “ritorno” di circa 8 milioni di profughi all’interno dei confini d’Israele. Quello dei profughi e dei loro discendenti è un problema spinoso in quanto persino i rifugiati palestinesi di quarta generazione permangono in una relazione di assistenza che dura da più di mezzo secolo. L’ Unrwa era infatti nata nel 1949 con un mandato di quattro anni per assistere, ma anche reintegrare i rifugiati nelle economie dei paesi ospitanti (Giordania, Siria, Libano). Questo mandato temporaneo è stato continuamente rinnovato e, dopo il coinvolgimento nelle azioni terroristiche del 7 ottobre di diversi impiegati Unrwa, forse risulta più chiaro perché il compito non sia mai stato assolto. Chi oggi si propone di riconoscere lo stato di Palestina pensa anche che possa essere legittimo imporre a Israele il rispetto di un “diritto al ritorno” che di fatto non esiste? La guerra del 1948 è finita e le persone nate in Giordania, o in Canada, o in Germania non possono essere considerate rifugiati. Eppure questa richiesta è stata costantemente messa sul tavolo delle trattative sortendo quale unica conseguenza l’impossibilità per i palestinesi di avere un proprio stato: Arafat e Abu Mazen, nel corso dei decenni, hanno così continuato a rifiutare qualsiasi proposta di pace. Tralasciando tuttavia le questioni politiche e concentrandoci esclusivamente sugli aspetti geoeconomici, non possiamo fare a meno di chiederci cosa sarebbe accaduto se, una volta giunti in Israele, questi profughi palestinesi avessero deciso di non voler restare nello stato d’Israele, ma di voler – a buon diritto – diventare cittadini palestinesi dello stato di Palestina. Le città palestinesi non sarebbero state in grado di fornire un ambiente di vita adeguato ai loro abitanti. E neppure Israele ci sarebbe riuscito: com’è noto, lo stato d’Israele, escluse Striscia e Cisgiordania, è per ampiezza più piccolo del Piemonte e il suo territorio, per il 60 per cento, è costituito dal deserto del Negev: ciò rende di fatto utilizzabile a scopi urbanistici solo poco più di 10.000 kmq dove, ad oggi, vivono 10.027.000 abitanti, dei quali il 72 per cento ebrei e gli altri arabi. L’inserimento di ulteriori 8 milioni di palestinesi in territorio israeliano porterebbe pertanto gli ebrei a divenire minoranza in Israele (con quasi 3 milioni di arabi in più) e alla creazione, de facto, di due stati palestinesi nella regione: entrambi in sofferenza per mancanza di infrastrutture e risorse adeguate a un simile repentino aumento di popolazione. Non ritengono i leader che vogliono riconoscere subito lo stato di Palestina che questo problema dovrebbe essere affrontato prima del riconoscimento?



In secondo luogo, che fare con gli insediamenti ebraici in Cisgiordania? I coloni di Giudea e Samaria verranno immediatamente riconosciuti come cittadini palestinesi? Anche il fatto di non chiarire questo ulteriore elemento di complessità, pensando di spingere l’acceleratore su Netanyahu, sta facendo un regalo ad Hamas e alle strategie del terrorismo. Quest’accelerazione verso il riconoscimento non farà che accrescere la possibilità infausta di annessione della Striscia di Gaza se non anche della Cisgiordania, complicando una situazione già tremendamente complessa. Lo vediamo in questi giorni, con il pressante discutere sull’occupazione militare di Gaza, che altro non significa che indurre Idf allo scontro finale, per impedire ad Hamas di rinascere dalle sue ceneri e magari riprendere il potere. Teniamo presente che né la Striscia né la Cisgiordania sono mai state annesse da Israele, nemmeno dopo il 1967. Lo stesso insediamento dei coloni, dopo la Guerra dei Sei Giorni, nei territori occupati da Israele ha sempre avuto una valenza differente: mentre l’insediamento nella Striscia di Gaza veniva visto in funzione geopolitica, per lo stanziamento in Cisgiordania si è sempre percepita un’ispirazione messianica. Non per nulla la Striscia di Gaza, nel 2005, ha potuto essere del tutto evacuata dalla presenza ebraica, nello storico tentativo di Ariel Sharon di trovare una via di pacificazione con i palestinesi. Pacificazione non raggiunta a causa di Hamas, non certo per colpa di Sharon. Tuttavia, le cose diventano più complesse quando si parla di Giudea e Samaria e lo abbiamo visto in questi giorni. Gli ebrei che nel corso degli anni si sono insediati in queste aree sono stati spinti da due motivazioni, la prima fa riferimento al fatto che si tratta delle regioni che, più di tutte, hanno forgiato il legame tra ebrei e Terra d’Israele. Città come Hebron, Nablus (in ebraico Sichem) e Gerico – tutte situate nell’attuale Cisgiordania – sono infatti centrali nella narrazione biblica. La seconda risiede nel fatto che i coloni non hanno mai compreso il motivo per cui proprio in quelle regioni, così significative per l’ebraismo, non possano risiedere ebrei quando nel resto d’Israele risiedono arabi che non hanno lo stesso legame religioso con la terra. Siti biblici come Kiryat Arba, Shiloh e Bethel hanno ispirato gli appartenenti al movimento religioso dei coloni nella creazione di nuove città ebraiche proprio nei luoghi descritti dalla Bibbia. L’elezione di Netanyahu e la formazione di un governo con i partiti religiosi hanno creato in queste aree una situazione estremamente delicata. Non gestirla in maniera adeguata, limitandosi a descrivere i coloni come pazzi criminali, non porterà due popoli a vivere pacificamente uno accanto all’altro in due stati: porterà a ulteriore guerra.



In terzo e ultimo luogo, va considerato che non si può riconoscere uno stato senza interpellare chi di quello stato farà parte. Di fatto i Territori palestinesi, ancora non giuridicamente configurabili come stato – per reiterato rifiuto arabo e palestinese – sono attualmente riconducibili alle due aree di Cisgiordania e Striscia di Gaza. Il che non significa che gli abitanti arabi si percepiscano come un unico popolo. E questo già prima del 7 ottobre. Bassem Eid, ad esempio, è un attivista palestinese per i diritti umani che già nel 2020 – ovvero tre anni prima del 7 ottobre – aveva creato un’ipotesi di piano di pace che muoveva le mosse partendo dal presente. La sua “Peace Vision” era una riflessione articolata che tentava di interpretare “da dentro” i contrastanti sentimenti della popolazione palestinese, riassumibile nell’idea che non si sarebbe potuto tornare alle trattative riesumando le posizioni del passato e che, anche tra i palestinesi, non ci si identificava più in un unico popolo. La sua proposta ipotizzava così la creazione di una confederazione, che avrebbe racchiuso al suo interno tre stati sovrani e indipendenti: Israele, Palestina (Cisgiordania) e Striscia di Gaza, col riconoscimento di Israele quale stato ebraico. Palestina e Gaza avrebbero dovuto essere demilitarizzate: l’unico esercito della confederazione sarebbe stato quello d’Israele. Gerusalemme, capitale della confederazione, sarebbe rimasta anche capitale d’Israele. Percorribile o meno, questo “piano” a costo zero dimostrava – per la prima volta – il desiderio dei palestinesi di essere coinvolti. Poi Hamas ha distrutto tutto, anche le speranze di quei palestinesi.



Esportare la democrazia, dovremmo averlo capito, si è dimostrato un falso mito, riconoscere aprioristicamente lo stato palestinese – senza il diretto coinvolgimento di palestinesi e israeliani – appare quanto meno un atto di codardia che potrà forse valere come riedizione internazionale del Lodo Moro, ma che non risolverà il problema. Anzi, lo peggiorerà a danno di tutti.

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