L’altra Lega è possibile. Intervista a Massimiliano Fedriga, l’anti Vannacci

Moderato, concreto, leghista da sempre, ma atipico. Il meglio del suo governo del Friuli Venezia Giulia? “I bilanci”. La giustizia? “Bene la riforma Nordio”. Il Ponte sullo Stretto? “Vantaggio anche per il nord”. E Salvini? “Fare il segretario è difficilissimo”

Un’altra destra? La trovate, appunto, in alto a destra, direzione Friuli Venezia Giulia, regione di cui si parla pochissimo ma che funziona. Dal 2018, nelle mani felpate del governatore Massimiliano Fedriga, 45 anni, veronese e dunque non autoctono (“Ma sono andato a vivere a Trieste giovanissimo”), leghista da sempre ma abbastanza atipico, almeno per la Lega degli ultimi anni nazional-sovranisti: moderato, concreto, non sbraitante e soprattutto silenzioso. In effetti, dà pochissime interviste, quindi per una volta che parla tanto vale fargliene una lunghissima. E qui, sorpresa, fra le non moltissime che dice, le parole più gettonate da Fedriga sono “dialogo” e “sintesi”, nemmeno stesse parlando Forlani. Insomma, aleggia intorno al presidente un vago ma piacevole sentore diccì, un profumo di moderazione, una traccia di politica pragmatica e non strillata, più interessata al confronto che allo scontro. Di conseguenza, interessante.

Partiamo da lei, governatore: a che punto siamo? “Al secondo anno del secondo mandato, scado nel 2028”. E, a meno di colpi di scena ormai francamente improbabili, impossibilitato a correre per il tris. Per la Lega, quella sul terzo mandato è stata una sconfitta secca… “Diciamo che in questo caso non abbiamo portato a casa il risultato, ed è un peccato. Ed è un peccato non perché non ce l’abbia fatta la Lega, ma perché quella legge è assurda. Il presidente della Regione è, con il sindaco, uno dei pochi casi in cui il cittadino elegge direttamente da chi vuole essere amministrato. Ora, qui è stato deciso per legge che l’elettore non può decidere. In Friuli Venezia Giulia (che però è una regione dal nome troppo lungo, quindi d’ora in poi scriverò FVG, nota dell’intervistatore), prima dell’elezione diretta nessun presidente di Regione aveva fatto due mandati: io sono il primo. Ma se i cittadini volessero che io restassi, perché impedire loro di scegliere?”. Ai danni collaterali si può aggiungere quello del sindaco o governatore che, sapendo che comunque il suo mandato è finito, nel suo secondo e ultimo giro si occupa soprattutto della sua carriera politica invece che della comunità che dovrebbe amministrare. Gli esempi si sprecano.

“E dire che per le elezioni indirette il vincolo di mandato non c’è”. Scusi Fedriga, non per girare il coltello nella piaga, ma toglierlo era appunto la madre di tutte le battaglie salviniane… “Non ce l’abbiamo fatta, ma il problema resta; quindi, io spero che qualcuno prenda in mano la faccenda”. Ma se, appunto, non ce l’avete fatta, di chi è la colpa? Del governo? “In realtà Meloni sulla questione aveva una posizione aperta, poi evidentemente c’è stato un blocco”. In realtà il blocco si chiama Antonio Tajani. “Forza Italia è quella più titubante sul terzo mandato, io ho provato a interloquire anche con loro, spero che con il tempo si possa raggiungere una sintesi”. E qui, davvero Fedriga vince una tessera Dc ad honorem: “titubante” Forza Italia che ha fatto le barricate, “trovare una sintesi” sono espressioni deliziosamente demodé, Prima Repubblica in purezza. “Io sono leghista da sempre, e convinto. Ma se non si trova un accordo fra sfumature e sensibilità diverse non si ottengono nemmeno i risultati. Io non cerco sempre la posizione di forza”. Forse dovrebbe dirlo al suo segretario federale… “Ma anche Salvini sa trovare le sintesi, e infatti la Lega fa parte di una coalizione che sta governando insieme da anni, e pure bene”. Ci arriveremo dopo. Per chiudere il capitolo su terzo mandato e regionali: immagino che quel che ha detto valga anche per Zaia e che lei pensi che il Veneto debba restare alla Lega. “Per la Lega, il Veneto è sicuramente importante. Ovviamente è assurdo che Luca, che è apprezzatissimo dai veneti, i risultati elettorali sono lì, basta leggerli, non possa continuare a fare quello che fa benissimo. Però la legge per ora c’è. Come principio generale, credo che le coalizioni debbano trovare le persone migliori. Il manuale Cencelli è sempre perdente”. Vabbè, questo sembra proprio la solita formula per un’intervista pol. cor. “Ma io in FVG l’ho anche applicata. Non ho mai imposto un candidato perché apparteneva a un partito piuttosto che a un altro, ma soltanto chi aveva più possibilità di vincere e poi di amministrare bene. Vuole un esempio? Nel ‘19 eravamo fortissimi, in regione la Lega alle Europee aveva preso più del 40 per cento, e alle politiche precedenti il 18. Eppure, candidammo a sindaci uno di Forza Italia a Trieste e Gorizia, uno di FdI a Pordenone e un leghista a Udine. Un leghista su quattro. E vinsero tutti. Quindi, tornando al Veneto: Zaia presidente sarebbe un ottimo affare per la regione. Visto che non è possibile, il segretario federale e la Liga Veneta sceglieranno il candidato migliore da proporre alla coalizione. Così, immagino, faranno anche gli alleati, e poi si deciderà”.

A proposito, neanche lei potrà ricandidarsi? Fra dieci anni come si vede, in spiaggia con un mojito (oddio, il mojito forse no, ai leghisti balneari non porta bene)? “Intanto in FVG, essendo una regione a statuto speciale, il terzo mandato non è escluso. E poi io dalla politica ho imparato una cosa: non vedersi mai da nessuna parte, perché più uno fa programmi più vengono disattesi e, in generale, rischia di fare scelte sbagliate. Io, per esempio, il governatore non volevo proprio farlo”. No? “No. Stavo a Roma, in Parlamento, mi trovavo bene e mi era anche stato proposto di entrare in un ipotetico ministero. Poi, per varie ragioni mi hanno convinto a candidarmi. Ed è stata un’esperienza bellissima, anche perché se fai il legislatore voti provvedimenti di cui non vedrai gli effetti, se detieni il potere esecutivo i risultati li vedi subito. Il governo del territorio è molto più veloce e snello”. Dovesse intestarsi un solo risultato, uno solo, come presidente del FVG quale sarebbe? “I bilanci della regione. Noi viviamo di compartecipazioni, non di trasferimenti da Roma, e io non ho mai aumentato le tasse. Ma è aumentata, e molto, la base imponibile, cioè chi le paga. Nel ‘18 ho trovato un bilancio di quattro miliardi e 100 milioni, nel ‘24, quando ho licenziato l’ultimo, era di sei miliardi e 200. Il mio primo assestamento fu di 80 milioni, l’ultimo di un miliardo e 200. Vuole dire che, se si investe in modo intelligente sul territorio, anche i bilanci pubblici migliorano. Se si taglia, si comprime l’attività economica e quindi soffrono anche i conti pubblici”. Democristiano e pure keynesiano.

Però bisogna inserire le piccole vicende di casa nostra in un contesto globale. Parliamo dei dazi di Trump, concesso e non dato che qualcuno, lui in primis, abbia qualche certezza su quali saranno alla fine. Due conti li ha fatti? Quanto ci rimetterà il FVG, che è operoso nord-est e quindi esporta tanto? “Sono uscite diverse stime, le più attendibili parlano di un danno di 400 milioni. Ma io non ci credo molto”. Perché? “Perché in questo momento è difficile fare previsioni serie, non sappiamo se ci saranno delle eccezioni, quali e per chi. Il FVG esporta negli Usa soprattutto macchinari, navalmeccanica, enogastronomia e componentistica. Molti sono prodotti di fascia media e medio-alta, quindi presumibilmente meno influenzati nelle vendite dai rincari. Quello che mi preoccupa più dei dazi è l’incertezza, perché le aziende hanno bisogno di regole chiare per potersi riorganizzare”. Trump è, come dire? un po’ imprevedibile. “Un personaggio non molto stabile nelle sue scelte”. E tuttavia molto amato dalla Lega e dal suo segretario… “Gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato e devono restarlo. L’ho detto anche prima delle loro elezioni: è una democrazia, gli elettori sceglieranno, dobbiamo rispettare le loro scelte e lavorare con chiunque vinca”. Ammetterà che Trump è un tantinello discutibile, sia per le decisioni sia per le modalità con cui le cambia e le comunica… “Non critico il leader di un paese estero, mi limito a prendere atto delle scelte della sua amministrazione. Se rappresenti un’istituzione, devi avere rispetto per le altre. L’importante è riuscire a lavorarci nell’interesse di tutti”. Trovare una sintesi, insomma. “Esatto”. A proposito: come giudica la trattativa fra Trump e von der Leyen? “Dalla parte europea, gestita con incertezza. Il risultato non è drammatico come si dice, ma di certo migliorabile. Alcuni paesi ne usciranno peggio di noi, altri meglio, ma la capacità negoziale dimostrata nell’occasione non mi sembra delle migliori. Vecchia questione: il problema non è la Ue, ma come è organizzata”. Crede che se i paesi europei avessero trattato singolarmente, ne sarebbero usciti meglio? “Intanto non si può fare, per la semplice ragione che siamo un mercato unico, quindi che la merce entri in Italia o in Irlanda è comunque in Europa. Poi magari su alcuni prodotti particolari si potrà discutere e trovare qualche alleggerimento, ma sono eccezioni, non la regola. In questo senso, mi sembra che il nostro governo si sia mosso in maniera non solo intelligente ma anche responsabile, a differenza di altri”.

Ma insomma, l’Europa siamo noi o è il nostro nemico? “La scelta europea è irreversibile. Questa non è un’opinione, ma una constatazione”. L’ha detto a Borghi, Bagnai e il resto della minoranza rumorosa del suo partito? “Ripeto: l’Europa c’è e ci sarà, non si torna indietro. Poi ognuno la pensa come gli pare”. A proposito: a Strasburgo, la Lega dovrebbe avvicinarsi al Ppe? “Il dialogo con i popolari è importante per non schiacciarli sui socialisti. Se c’è una famiglia politica con la quale il dialogo deve esserci è proprio questa. Io faccio parte del Comitato delle Regioni d’Europa e posso garantire che lì i socialisti hanno delle posizioni molto più radicali della sinistra italiana”. Insomma, il “dialogo” (altro punto per il premio Dc) sì: ma un’eventuale alleanza con il Ppe sarebbe tabù? “In politica i tabù non esistono”. Anche perché loro lo negano, ma sembra non aspettino altro… “Mi auguro che anche da parte loro ci sia la disponibilità a non guardare soltanto a sinistra. Come si è visto sul Green New Deal, dove i popolari hanno giustamente preso le distanze da un’impostazione puramente ideologica e del tutto fallimentare”. Insomma, più Merz e meno Le Pen (oppure Orbán) le sembra un programma praticabile, dalle sue parti politiche? “Sono tutte posizioni che possono cercare e trovare il dialogo (e ridai!, ndi) fra loro. Se ci sono dei punti di contatto che servono a raggiungere un accordo possibile, perché non provarci? Ma a un patto: bisogna smetterla di trasformare l’avversario in un nemico pubblico. Lei citava Orbán. Demonizzarlo è stato un gravissimo errore europeo, perché si tratta del presidente democraticamente eletto del suo paese. Poi qualcuno può non condividere le sue posizioni, ma l’hanno scelto gli ungheresi e bisogna lavorare insieme. E aggiunga pure che gli attacchi alle idee si possono accettare; quelli alla persona, no”.


Già che siamo in zona esteri, dia un voto al governo Meloni sulla questione ucraina. “Gli do un bel 9, condivido completamente la posizione presa da subito dell’esecutivo, l’aggressione della Russia è da condannare e dobbiamo continuare a dare supporto all’Ucraina. Poi, come tutti, mi auguro che si possa raggiungere un cessate il fuoco al più presto”. La Lega però è il più filoputiniano dei partiti italiani, anzi no, c’è anche il M5s, ma insomma siamo lì. “Ma i voti in Parlamento sono stati molti chiari, la maggioranza è stata compatta. Poi è vero, ci sono state da parte di alcune dichiarazioni con sfumature diverse, ma in concreto la Lega ha appoggiato il governo che appoggia la resistenza ucraina”. E Salvini sulla piazza Rossa con la t-shirt con il faccione di Vladimir?

“Parliamo di ben prima del 2022, quando con Putin avevano rapporti tutti. Da presidente del Consiglio, Enrico Letta incontrò Putin anche dopo che aveva annesso la Crimea. Peraltro, era giusto avere dei rapporti strutturati con la Russia. Se poi la Russia invade uno stato sovrano, chi aveva dei rapporti con lei non è obbligato a difenderla”. Ma lei a Mosca c’è andato? “Mai stato in Russia. E nemmeno in Cina”. E dove, allora? “Fuori dall’Europa, negli Usa e in Giappone…” Ineccepibilmente occidentale anche come turista, insomma. E al governo Meloni nel suo complesso che voto dà? “Direi che un 8 pieno se l’è meritato tutto”. Durerà fino alla fine della legislatura? “Sicuramente sì, anche se magari la presidente del Consiglio valuterà se anticipare le urne di qualche mese. L’importante è non andare a votare in autunno”: Perché? “Perché se si vota in autunno poi non si fa in tempo a chiudere i bilanci, dello stato o delle regioni è lo stesso. Bisogna votare in primavera, perché altrimenti fra insediamento degli eletti, scrittura della legge di Bilancio e voto si scavalla all’anno successivo, e non va per niente bene”. La Meloni sarà la prima, credo dell’intera storia repubblicana, ad aver fatto sopravvivere il suo governo senza rimpasti per tutta una legislatura. “E va benissimo, è un segnale importante soprattutto all’estero. L’autorevolezza internazionale di un governo è direttamente proporzionale alla sua stabilità: niente danneggia il prestigio del paese come mandare in giro ogni anno dei ministri diversi. Del resto, io ero e sono favorevolissimo al premierato”. Sul gossip estivo della Meloni come futura presidente della Repubblica come la pensa? “Che sarebbe molto bello avere la prima Presidente donna. Siamo ancora lontani da una prospettiva di questo tipo” (e qui, chapeau: dichiarazione assolutamente pol. cor. nella sostanza e squisitamente democristiana nella forma). Fantapolitica a parte, l’impressione è però che la Meloni o il centrodestra governeranno per il prossimo ventennio, ogni riferimento temporale è assolutamente casuale, più che per meriti propri per i demeriti dell’opposizione. “Il governo, lo ripeto, sta governando bene. L’opposizione è poco strutturata nella proposta, perché i grandi temi della sinistra storica sono stati abbandonati, ma al loro posto c’è il nulla, e in ogni caso di certo non delle proposte di governo credibili. Il centrodestra, con tutte le differenze del caso, ha sempre mantenuto una sostanziale compattezza. Fra Pd e M5s non è che le posizioni siano diverse, è che sono proprio incompatibili. Prenda appunto la politica estera, o la questione ambientale. Mi sembra che nel paese ci sia la consapevolezza che, se fossero chiamati a governare loro, le conseguenze sarebbero drammatiche”. Insomma, lei dice: gli altri sono peggio di noi. Sembra il baritono fischiato che sbottò: sentirete il tenore. “Io non nego che fra gli alleati del centrodestra ci siano state anche delle divergenze, e pure talvolta vivaci, altrimenti saremmo tutti nello stesso partito. Ma poi il Consiglio dei ministri vota insieme, i gruppi parlamentari anche, il governo va avanti e tutto il resto ci sta”.

Intanto il suo segretario Salvini si sbatte per il Ponte sullo Stretto, e i leghisti della prima ora, i nordisti doc, non gradiscono affatto, come ha dichiarato anche Giancarlo Caselli. “Sì, ma lo sviluppo dei collegamenti nel sud è un vantaggio per tutto il paese, quindi fondamentalmente anche per il nord. Il Mezzogiorno ha tutte le possibilità di sviluppo, il Ponte farà da volano. Esiste una questione meridionale esattamente come esiste una questione settentrionale. Ma vivono in simbiosi. Ai ‘vecchi’ leghisti dico che la battaglia sull’autonomia differenziata dimostra che la Lega di oggi continua a tenere in considerazione le istanze del nord. E su questo continua a lavorare”. Ecco, l’autonomia differenziata, altra battaglia leghista forse non persa, ma un po’ incerta. “Il percorso dei Lep sta andando avanti, dei passi importanti sono stati fatti”. Da presidente di una regione a statuto speciale, non crede che sarebbe stato più pratico trasformare l’Italia in un paese di venti regioni così, invece di star lì con il bilancino sulle competenze e sui livelli minimi? Tanto sarebbe stata un’impresa egualmente improba… “Non credo, qui si parla di autonomia differenziata, non speciale, che ha ragioni storiche o geografiche del tutto particolari. Ricordo che l’autonomia differenziata discende da una riforma voluta dalla sinistra e parte da una constatazione che sfido chiunque a trovare sbagliata: chi svolge meglio certe funzioni per il cittadino, lo stato o la regione? Visto che non tutte le situazioni sono uguali, può darsi che io in FVG, poniamo, senta di poter gestire meglio, che so? la Protezione civile e, mettiamo, l’Umbria invece l’Ufficio scolastico regionale. Non si tratta di una rivoluzione, ma di semplice buon senso. Comunque anche in questo caso la riforma procede, con tutte le inevitabili difficoltà, ma quando sarà approvata sarà un bel giorno per l’Italia. Tutta: nord e sud”.

Però, Fedriga, se il contributo intellettuale, chiamiamolo così, più importante al dibattito in zona centrodestra, anzi destracentro, meglio: destra destra, è il libro del generale Vannacci qualche problema identitario si pone. “Non credo proprio che il libro di Vannacci sia stato il contributo più importante degli ultimi anni”. Così poco, che l’autore è stato fatto su due piedi vicesegretario della Lega. “Certo, il libro ha creato molto interesse, è stato molto venduto e forse anche molto letto ma insomma, alla fine è rimasto lì, non credo che abbia sconvolto la politica italiana. Certo è che il generale rappresenta alcune posizioni che esistono, che ci sono, e che hanno trovato una voce”. Lei le condivide “Alcune sì, altre per nulla”. Ne citi una per entrambi i casi. “Sulla lotta all’immigrazione irregolare, per esempio, trovo che Vannacci dica cose giuste. Sull’omosessualità, radicalmente sbagliate, anche perché si basa sulla statistica, metodo pericolosissimo perché così ogni minoranza può diventare anormale. E lo dice uno che ha sempre difeso la famiglia tradizionale, ecco un’altra posizione di Vannacci che mi piace. Ma per me il rispetto delle persone, di tutte le persone, viene prima”. Confessi: il libro l’ha letto? “Non tutto, solo le parti, diciamo così, che hanno fatto più discutere”. E il generale in persona l’ha incontrato? “Due volte, mi sembra”. Che calore. Resta l’impressione di una Lega dove non tutti, per esempio lei, condividono la svolta confessionale e destrorsa del Salvini degli ultimi anni. “Io tutto questo radicalismo non lo vedo. Capita che ci sia qualcuno che si esprime in maniera un po’ più forte, ma è normale, siamo uomini, non replicanti, la Lega è un partito politico e non una caserma, le sensibilità e anche le posizioni possono essere diverse. Succedeva anche nella vecchia Lega, Borghezio e Caselli che lei cita militavano certamente nello stesso partito, ma non avevano esattamente le stesse posizioni e nemmeno lo stesso stile nell’esprimerle”. Lei è cattolico: andrebbe a baciare il rosario in piazza? “In piazza no, ma perché non me lo porto dietro”. In ogni conversazione con ogni leghista c’è sempre questo fantasma o convitato di pietra, Matteo Salvini. Resterà segretario vita natural durante, come il Papa? “Non credo. Fare il segretario è difficilissimo, da fuori è semplice e talvolta un po’ ingeneroso criticare, ma quando ti metti a farlo, a me è successo in FVG, capisci quanto è complicato. Ci sono equilibri da trovare, delle responsabilità da prendersi, delle scelte difficili da fare. Chi fa il segretario non si può che ringraziare”. Ma molti, dentro e fuori la Lega, constatano che un partito che era al 34 per cento veleggia adesso, a seconda dei sondaggisti, sull’8 o 9… “Sì, ma quando Salvini l’ha presa in mano, la Lega era al 4 per cento. Vero che l’ha portata al 34, ma se oggi è all’8, che poi è più facilmente il 9 o il 10, è comunque il doppio. E il segretario ha fatto anche scelte coraggiose”. Tipo? “Per esempio, quando è entrato nel governo Draghi. Una decisione che, lo sapevamo benissimo, sarebbe stata penalizzante in termini di consenso. Ma Salvini e la Lega si sono assunti quella responsabilità per il bene del paese. Era una coalizione atipica, dov’erano rappresentate posizioni molto diverse, ma starci in quel momento serviva all’Italia. Urlare da fuori sarebbe stato molto più comodo, ma avrebbe dato il governo del paese a Pd e M5s”. Guardi che “urlare da fuori” è la descrizione perfetta di quel che fece all’epoca Giorgia Meloni, che infatti ci costruì poi le sue fortune elettorali. “Infatti è un complimento per Matteo Salvini che in quell’occasione antepose l’interesse del paese a quello del partito”. Lei Draghi lo apprezzava, vero? Ci faccia sognare. “Moltissimo. Era ed è una personalità che ha un’autorevolezza internazionale e, allo stesso tempo, anche una grande capacità nella difesa degli interessi nazionali, e che diede la sua disponibilità in un momento che sapeva essere difficile, lo stesso discorso che vale per la Lega vale anche per lui. Credo che gli italiani non possano che ringraziarlo”. Torniamo a Salvini, però. Una scelta sbagliata l’avrà pur fatta, una sola. “Devo pensarci…”. Le agevolo il ricordo. Papeete: basta la parola. “Lì furono sbagliate le tempistiche, non la decisione. Anch’io gli avevo detto che bisognava mettere fine all’esperienza di governo con i Cinque stelle, quindi mi assumo le mie responsabilità. Ma forse, con il senno di poi, la rottura andava consumata in un altro momento. Ma tutti noi non rifaremmo alcune cose che abbiamo fatto, e ripeto: è facile giudicare dall’esterno”.

Chiudiamo con la cronaca politica corrente. Si aprono i giornali e si legge che il fatto del giorno sarebbe lo scontro fra il governo e la magistratura. Insomma, siamo nel 1994, governa Berlusconi e in questo benedetto paese plus ça change, plus c’est la même chose. Non fosse una questione importante, forse “la” vera questione nazionale, verrebbe da citare Sandra Mondaini: che barba che noia… “Il punto è che nessuno ha mai avuto il coraggio o la forza di portare a casa una riforma vera della giustizia. E questa è una responsabilità della politica, di cui non si può incolpare la magistratura, che peraltro dovrebbe finalmente mettere in discussione la sua organizzazione interna. Ma non credo che la soluzione sia quella di lasciare tutto com’è, perché ci sono comunque delle risposte da dare ai cittadini, non ai politici. E riguardano la lentezza dei processi, l’incertezza del diritto e anche, di conseguenza, la capacità di attrarre investimenti. C’è sicuramente un problema amministrativo e di risorse. Ma la riforma Nordio va nella direzione giusta, io la condivido completamente”. Di riforme della giustizia ne abbiamo viste molte; realizzate, nessuna. Sarà la volta buona? “Io sono ottimista perché vedo decisione e compattezza da parte della maggioranza, ma certezze non ne ho. Mi sembra che, anche in questo caso, servano responsabilità e dialogo da parte di tutti gli interessati. Gli scontri servono ad avere dei titoli sui giornali, ma in realtà non aiutano nessuno”. E, già che siamo in tema, sul caso Almasri che dice? “Che nello specifico non sono in grado di fare valutazioni, non conosco abbastanza le carte. C’è però un aspetto più generale, se posso”. Può. “Un governo può fare delle scelte condivisibili oppure no, non entro nel merito della faccenda, ma in questo caso si resta su un piano politico e non giudiziario. Se sono in ballo questioni di sicurezza nazionale, e mi sembra che sia questo il caso, il rischio di un’azione giudiziaria è quello di indebolire l’azione dell’esecutivo. Io sono perché in questi casi il governo abbia libertà di azione per perseguire l’interesse generale, altrimenti rischiamo di essere un paese debole. E di questi tempi non possiamo permettercelo”.

Leave a comment

Your email address will not be published.