La fatica di essere Tadej Pogacar

Il campione sloveno ha detto che “sto già contando gli anni che mi separano dal ritiro”. La solitudine del più forte e l’inizio della consapevolezza di cosa regala la bicicletta e cosa toglie il ciclismo

Quello sguardo fuggitivo e solitario, così simile e così diverso dal suo essere corridore davanti a tutti e senza nessuno attorno, non era la rappresentazione della fatica. Ci eravamo ingannati. Avevamo creduto fosse l’espressione dell’uomo che si era spinto al limite delle sue possibilità, che stesse ridefinendo il limite della talento ciclistico. Non era così.

Gli occhi gioiosi e appassionati di Tadej Pogacar si erano iniziati a velare di indifferenza in primavera. Si erano adombrati in estate, mentre si guardava attorno e non vedeva altro che vuoto, che distanza tra lui e gli altri. Sui palchi delle premiazioni del Tour de France 2025, tappa dopo tappa, il volto del campione sloveno aveva perso colore, il suo sorriso si era ristretto. Quell’uomo che riceveva premi, si vestiva di giallo e di pois rossi, sembrava più che un campione, un cassiere di un supermercato di provincia vuoto una domenica d’estate. Sembrava dire: “Ma che diamine sto facendo qua? Cos’è tutto questo entusiasmo? Non vedete che mi sto rompendo le balle?”.

“Sto già contando gli anni che mi separano dal ritiro”, ha detto Tadej Pogacar. Lo aveva fatto capire qualche giorno dopo la fine della Grande Boucle, lo ha ribadito al termine del criterium di Komenda, lì dove è nato. “Ho iniziato a vincere presto, una carriera sportiva di alto livello non dura molto. Ho solo pochi anni per godermi il livello a cui sono ora”, ha aggiunto.

Che un corridore inizi a pensare a quando finirà la carriera sportiva mentre ancora corre è legittimo. Come è legittimo pensare che non si vincerà per sempre.

Quel che spiazza non sono le parole di Tadej Pogacar, è il suo sguardo. Lo sguardo di chi a pedalare ancora si diverte ma che si sente in trappola perché inizia a non divertirsi più a pedalare in gruppo. È lo sguardo del ragazzino che una volta raggiunto ciò che pensava fosse il suo sogno, si inizia a guardare attorno davvero e si accorge che tutto ciò che gli sta attorno non è ciò desiderava. Perché lui voleva solo pedalare, voleva solo correre le grandi corse, vivere in prima persona ciò che i suoi miti bambini aveva vissuto, corso, a volte vinto.

È come se Tadej Pogacar si fosse accorto che la libertà che la bicicletta sa regalare venga rapita dal ciclismo, stritolata tra calcoli e watt, in settimane di lontananza da dove si vorrebbe stare. È come se Tadej Pogacar si sia accorto che l’età adulta sia lo strangolamento dell’entusiasmo bambino. E che la gioia del pedalare al solo scopo di pedalare sia stato inghiottito da troppe tabelle, troppi programmi e troppe attenzioni. Insomma in qualcosa senza senso.

Vive un momento di scoramento Tadej Pogacar. Un momento vuoto di obbiettivi, perché non è vero che vincere è l’unica cosa che conta nello sport. Perdere, a volte, sa essere più salutare. Ti dà la possibilità di sentirti di nuovo piccolo e così facendo ti permette di dare una dimensione umana ai problemi che percepisci. Tadej Pogacar avrebbe bisogno di un avversario capace di prenderlo a schiaffoni (ciclistici). Gli allungherebbe la carriera, lo farebbe sentire senz’altro più vivo.

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