Auto blu e scorte mandate a fare la spesa. Sushi e pasta al forno. Dal caso Galvagno alla Saguto, passando per Miccichè
Sarà per quel colore, profondo e istituzionale. Appagante, come se si aggiungesse il tassello che manca nell’outfit d’ordinanza. Nessuno vuol pensare che salire a bordo di un’auto blu abbia ancora il retrogusto acidulo del “mi dispiace ma io sò io e voi non siete un c…”. E se il fine ultimo, decorticato di ogni ragionamento, si riducesse alla sola comodità di sgattaiolare nel traffico senza pagare dazio? Un salvacondotto per le corsie preferenziali, non come un qualunque e incivile automobilista che zigzaga tra le auto incolonnate. Sarà quel che sarà, ma l’ubriacatura da uso smodato di auto blu, e scorte, può avere effetti collaterali.
Ne sa qualcosa Gaetano Galvagno, il meloniano presidente dell’Assemblea regionale siciliana, finito sotto inchiesta a Palermo. Pubblici ministeri e finanzieri lo indagano per un giro di presunte corruzioni sotto forma di regali, consulenze e incarichi. Mamma Regione apre generosamente la borsa dei contributi per fiere, sagre ed eventi. Un circoletto degli affari, messo in piedi dal presidente del parlamento siciliano, ne avrebbe approfittato. Cultura, sociale e beneficenza sono una corazza contro i malpensanti. Chi volete che intervenga per criticare l’organizzazione in teatro di concerti di Natale per i bimbi delle periferie disagiate o per sminuire il valore di convegni contro la violenza sulle donne. Poco importa se ai primi partecipano poche e distratte scolaresche, tanto che bisogna reclutare comparse tra i figli della benestante borghesia con “felpe da trecento euro” (così dicevano gli indagati) per riempire le sedie vuote. E i convegni? Troppo spesso diventano passerelle del bla bla bla per gente che si parla addosso. Intenzioni buone, effetti impalpabili.
I finanzieri cercavano la conferma del patto corruttivo ipotizzato dalla Procura di Palermo che, cammin facendo, ha dovuto aprire un fascicolo con la contestazione di peculato per l’utilizzo dell’auto blu. L’autista di Galvagno era un problem solver di faccende domestiche. La mappa degli spostamenti ritenuti fuorilegge – una sessantina in un anno – ha una forte impronta, come dire, enogastronomica. L’autista, con tanto di lampeggiante acceso per fare in fretta (o per mantenere intatta la freschezza del cibo?), se ne andava in giro a ritirare ricotta salata e pomodorini, sushi e kebab, Aperol e prosecco. Benedetta fu l’auto blu in un caldo maggio palermitano, quando i bouquet di fiori ordinati dal presidente furono sì sistemati dalla sorella nel portabagagli ma con l’aria condizionata a palla altrimenti “si seccano”. L’auto di servizio era un taxi di lusso per parenti (oltre alla sorella, anche zii, cugini e la madre) e amici del presidente, colleghi di partito, uomini e donne che di giorno e di notte si spostavano fra case, alberghi e aeroporti. Incontinenza da abitudine all’utilizzo. Il superfluo diventa necessario.
Tra gli utilizzatori abituali c’era la portavoce del presidente, Sabrina De Capitani, esperta brianzola di comunicazione che Galvagno, dopo averla conosciuta a una cena, ha voluto al suo fianco in Sicilia. C’è chi la definisce “califfa” e chi “regina”, è stato il personaggio chiave nella gestione degli eventi e dell’immagine di Galvagno. Non ha resistito alla tentazione e ha finito per usare la macchina di servizio, una Audi A6, del presidente per andare in farmacia, in palestra o a scuola guida per prendere la patente. La donna chiamava e l’autista correva. E’ finita sotto inchiesta, il suo ruolo avrebbe debordato nel penalmente rilevante.
“Irrilevante”, tuona al contrario Galvagno, che per giustificare l’utilizzo quanto meno allegro dell’auto blu cita l’interpretazione dei regolamenti e rilancia l’impellente necessità di scriverne uno nuovo “in maniera chiara e non equivoca per il futuro”. Dietro ogni parola pronunciata c’è l’impronta dei suoi avvocati. E’ iniziata una legittima strategia difensiva per affermare, da subito, che le maglie del regolamento sarebbero più larghe della gabbia che limita l’uso dell’auto blu alle esigenze di servizio e rappresentanza del presidente. Per farla breve, incartare la spesa del supermercato con i fogli delle disposizioni dell’Assemblea regionale siciliana potrebbe incidere in un eventuale processo. Nell’attesa è pur sempre di ricotta e pomodorini che si sta parlando.
Nel suo ricco staff qualcuno aveva le idee chiarissime. “Il presidente può fare quello che vuole”, diceva il suo autista richiamando – udite, udite! – il regolamento “ad personam”. Chissà se, come nel caso delle assicurazioni, sia prevista un’estensione che scagioni l’autista pizzicato a usare l’auto blu per le piccole esigenze della sua famiglia. I più romantici ci vedranno un riverbero del manifesto marxista, un segno di “riscossa del proletariato”, il “rovesciamento del dominio borghese”. Chissà se l’effetto fascinazione funzionerà sui magistrati che dovranno valutare il peso della faccenda.
Sull’auto blu a volte viaggiava anche il cagnolino di famiglia. La memoria riporta senza troppo sforzo al gatto di Gianfranco Micciché. All’ex presidente dell’Ars, dunque precedessore di Galvagno, la storia dell’auto blu è già costata letteralmente caro.
Riassunto: i poliziotti seguivano un padrino della vecchia mafia, il palazzinaro Francesco Bonura. Pedinandolo, annotarono un incontro per l’organizzazione di un banchetto con il ristoratore Mario Di Ferro che nel suo curriculum può vantare il fatto di avere cucinato per due papi, Ratzinger e Francesco, e l’amicizia con Miccichè. Saltò fuori la storiaccia della cocaina ceduta al politico e pure quella dell’auto blu assegnata – ça va sans dire, per regolamento – all’ex presidente che stazionava spesso davanti al ristorante di Di Ferro. Anche la “sua” Audi Q3 di rappresentanza è stata usata per accompagnare famigliari, collaboratori, amici e amiche di Miccichè. Altre volte è diventato un mezzo di trasporto per “fave fantastiche”, “due teglie di pasta al forno, sfincionello e gateaux, le cialde di caffè”, e tutto il cibo necessario per la festa di compleanno di Miccichè comprato dall’amico Di Ferro. Il cibo c’entra sempre.
I collaboratori facevano la spola da Palermo a Cefalù, dove c’è la casa dell’onorevole, un tempo generale di trionfali campagne elettorali chiuse in Sicilia con vittoria bulgare. Erano affaccendati a seguire i lavori degli operai che “debbono controllare questo canalone che si è otturato” o comprare “il frigorifero”. Una volta l’autista fu incaricato di ritirare “dodici piante di bambù e quattro piante grasse”. Parve un eccesso allo stesso autista, che sbottò: “Mica ho il Fiorino”. Potrebbe essere un’idea per il futuro, dotare il parco mezzi anche di furgoncino di servizio.
Nulla a confronto con la richiesta a cui l’autista tentò di opporsi: “Nella macchina blu il gatto non sale”. Tutto vero per stessa ammissione di Miccichè, ma c’era una causale nobile: il gatto di casa stava malissimo, lo strappo alla regola servì per accompagnarlo dal veterinario e salvargli la vita. Chi non l’avrebbe fatto in caso di emergenza.
Scavando scavando sono stati trovati i fogli di missione gonfiati dall’autista, che è stato condannato, e firmati da Miccichè che è ancora sotto processo. Ha già pagato pegno, però. Qualche settimana fa si è accordato con la presidenza della Regione sborsando 28 mila euro per il danno di immagine che ha provocato. In cambio l’Ars non si costituirà parte civile nel processo. A dare il via libera alla mediazione è stato il Consiglio di presidenza con il voto favorevole dell’attuale presidente Galvagno. Nessuna ironia, solo freddissima annotazione di cronaca.
Questione, come sempre, di regolamento che a volte può ricondurre il delirio di onnipotenza nel recinto dell’impunibilità. E’ accaduto per Silvana Saguto, l’ex magistrato delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Oggi è in carcere per scontare una condanna per corruzione. Una pagina nerissima per la magistratura che ha mandato in frantumi la credibilità dello stato nella gestione dei beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori accusati di essere in affari con Cosa nostra. Saguto e un drappello di amministratori giudiziari e consulenti banchettavano sulle aziende, spesso andate in malora. Silvana Saguto, che alcune pagine serie di antimafia le ha scritte davvero, era potente e super scortata. Solo che aveva trasformato “il servizio pubblico di tutela in un privilegio privato”. Alle decine di capi d’imputazione per la mala gestio dei patrimoni si aggiunse l’abuso d’ufficio. La legge è chiara: sulla blindata non possono essere trasportate persone diverse dal magistrato, fatta eccezione, in casi assolutamente straordinari, per gli stretti congiunti e conviventi. Deve essere il capo scorta a valutare la necessità “di contemperare due interessi confliggenti: garantire la sicurezza della personalità scortata e cercare di non limitare la libertà individuale”.
E invece l’ex magistrato, condannata e radiata, aveva scambiato la scorta per un servizio taxi da utilizzare per sé stessa, parenti e amici. Che venivano prelevati a casa e accompagnati in giro per la città. Senza contare tutte le volte in cui Saguto chiedeva agli agenti di sbrigare faccende che nulla avevano a che fare con la divisa che indossavano: dall’acquisto dei ricci per la pasta al roast beef, dal ritiro delle ricette dal medico alla consegna di frutta all’amico ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, per la quale la scorta andò pure a ritirare la casacca in lavanderia o il cestino in argento da riempire con i fiori; dal mangime per il cane alle scarpe dal calzolaio.
“Potete venire, però dovete passare dalla profumeria e prendermi i dischetti levatrucco, quelli grandi”, ordinò Saguto alla scorta in una delle tante e imbarazzanti conversazioni intercettate. Il poliziotto si trovò di fronte a un dilemma inaspettato, mai affrontato nei corsi di addestramento: “Sta controllando meglio ma molto probabilmente non ci sono quelli grandi, ci sono quelli piccoli”.
In molte occasioni, e lo ammisero gli stessi uomini di scorta, era più facile turarsi il naso e sbrigare le faccende per conto del magistrato piuttosto che attivare il servizio di sicurezza per accompagnarla. Questo e altro fece venire meno l’accusa di abusi d’ufficio nonostante gli eccessi nell’uso della scorta che, diciamocelo con franchezza, in molti casi è ormai diventata un fattore scenico. Ci sono le scorte doverose e quelle per cui si fa fatica a trovare una giustificazione. Basta essersi iscritti una volta, anche se sono ormai trascorsi decenni, nell’antimafia militante e la scorta è per sempre. I rischi per l’incolumità non richiederebbero certi livelli di protezione, ma l’outfit d’ordinanza ne risentirebbe.