L’Ucraina tra Putin, Trump e gli europei

Come andrà il vertice in Alaska: qualche idea per capirlo. La tripartizione dell’Ucraina che vorrebbe il Cremlino. L’eventuale dopoguerra, difficile per tutti. Bene l’Italia insieme ai Volenterosi

Sappiamo molto poco di quello che sta succedendo e succederà tra Donald Trump e Vladimir Putin. E’ così anche per la crescente marginalizzazione non solo dell’Unione europea, che si è rivelata una preziosa associazione di stati per i tempi buoni, ma e forse soprattutto di un’Europa e di paesi europei il cui peso relativo è in costante diminuzione, un problema che riprendo alla fine.

Qualcosa, tuttavia, si può provare a dire ragionando, anche se la ragione ha forti limiti quando non è sorretta da informazioni corrette. Alcune cose però le sappiamo. Qualche tempo fa Trump ha mostrato un malumore crescente verso Putin, minacciando sanzioni più vere di quelle fin qui in vigore (ricordo che la Russia continua a vendere energia, e non solo, persino ai paesi europei che ancora nel 2024 ne hanno acquistata per 22 miliardi di euro). Mosca ha reagito dapprima con supponenza, ma alla fine ha accettato un incontro, per ora a due e in Alaska.

Cioè su territorio americano ancorché un tempo russo, che taglia fuori tanto l’Ucraina quanto i paesi europei, che hanno rilasciato a proposito una bella dichiarazione e stanno esercitando la pressione che gli è possibile esercitare. L’accettazione è certo il possibile segno di un accordo già tracciato nelle sue grandi linee, e magari a favore di Mosca, come sostengono alcuni osservatori competenti, dalla Stanovaya – che imputa la decisione dell’incontro a una ritirata di Trump e non di Putin – agli esperti consultati dal New York Times, giustamente preoccupati dalla possibilità che Putin abbia visto una opportunità non solo per chiudere la guerra a suo favore ma anche per dividere quella che era l’alleanza dei paesi occidentali, prefigurando una sorta di nuova Monaco.

Il pericolo esiste, e bene hanno fatto i paesi europei a reagire. Ma esistono altre possibilità, come prova l’evoluzione della posizione di Putin, che almeno dal 2008 punta a un’Ucraina divisa in tre, con una parte sottoposta alla diretta influenza russa, una parte maggiore “bielorussizzata” (quello che credeva di aver già ottenuto nel 2013 con Yanukovich) e un “estremo occidente” lasciato a chi volesse prenderselo. Questo piano, fallito nel 2014, è andato in crisi grazie alla resistenza ucraina del 2022 e a tre anni di una dura guerra combattuta da Kyiv con convinzione e determinazione. Putin ha poi dichiarato, e messo in Costituzione, l’appartenenza alla Russia di quattro governatorati ucraini (tra cui i due del Donbas) che i russi non controllano integralmente, e ha più volte ripetuto che alla fine della guerra non solo l’Ucraina non potrà far parte della Nato, ma non dovrà neppure avere un forte esercito, truppe europee sui suoi territori, e rifornimenti militari adeguati.


Mosca è però impegnata da tre anni in una guerra terribile che ha fatto più di un milione di morti e feriti; in cui nemmeno la primavera-estate 2025 – malgrado gli aiuti americani si siano grandemente ridotti – ha portato lo sfondamento sperato (e più volte annunciato da commentatori italiani di cui solo Dio sa perché viene chiesto il parere visto il loro livello intellettuale); che sta indebolendo un’economia russa che mostra vistosi segni di crisi da economia di guerra; che ha più che incrinato la presa russa su Caucaso e Asia centrale; e che soprattutto ha reso la Russia sempre più dipendente da Pechino, che certo non è il sogno di un nazionalista russo.

E’ su questo sfondo che va giudicata la sua decisione di andare a trattare tra qualche giorno con un presidente americano che si ritiene il maestro degli accordi anche perché spietato, una reputazione che ci si immagina voglia difendere; che venerdì ha dichiarato che in termini di territori “qualcosa ci riprenderemo e qualcosa la scambieremo”; e che, se è pronto a dire no all’ammissione dell’Ucraina alla Nato (evento peraltro improbabile e che non è mai stato davvero all’ordine del giorno anche per forti opposizioni interne alla stessa Nato), lo è molto meno a dire sì alla tripartizione dell’Ucraina e a di fatto rompere coi paesi europei, cosa certo possibile ma per cui sa di dover pagare un prezzo economico e politico molto alto.

Messa da parte l’ipotesi di un nulla di fatto, che è certo possibile, i punti chiave su cui l’esito dell’incontro andrà giudicato sono dunque due: 1) come verrà tracciata la risistemazione territoriale, tenendo presente che qualunque soluzione che neghi alla Russia, che li vuole fortemente, non solo Odessa e Karkhiv, ma anche parti importanti dei quattro governatorati formalmente ammessi, è di fatto una sconfitta per Putin; 2) che esercito potrà avere l’Ucraina e quanto e come esso potrà integrarsi con quelli dei paesi europei, a partire da quelli immediatamente confinanti, ma anche con quelli tedesco, francese, inglese e italiano. Se questo esercito ci sarà e sarà un esercito forte, indipendente e collegato a alleati sicuri un’Ucraina che avrà salvato più dell’80 per cento del suo territorio contro una grande potenza che quasi tutti – americani inclusi – pensavano l’avrebbe inghiottita in un boccone, potrà dire di aver vinto la sua guerra di indipendenza e Mosca avrà registrato una sconfitta un tempo impensabile, sanzionata dalla sua dipendenza da Pechino.

Ma anche se questo accadesse, le cose potrebbero andare poi male, anche all’Ucraina. Questo non solo perché bisognerà vedere su quali garanzie e puntelli sarà basata la tenuta di un eventuale accordo che potrebbe – semplicemente – non reggere. E’ per esempio possibile che invece di ragionare su come e cosa costruire su una vittoria ottenuta certo a carissimo prezzo ma che resta tale, gli ucraini – comprensibilmente mossi dal sentimento di aver subito un’ingiustizia – gridino al tradimento e si dividano. Sappiamo per esempio che dopo l’insuccesso della sbagliata “controffensiva” del 2023 è aumentato il numero degli ucraini disposti a accettare la pace in cambio della perdita di parte dei territori già occupati da Mosca (ma non di altri) e di una sostanziale indipendenza del paese. I sondaggi dicono però che poco più della metà resta contraria a quella perdita e, come ha notato Fubini sul Corriere, si potrebbe aprire “una fase di tormenti interni, con una rivolta nella società contro la tregua ingiusta e nuove elezioni presidenziali” che offrirebbero a Mosca la possibilità di destabilizzare la vita politica ucraina. Il dopoguerra potrebbe cioè regalare a Putin quel che i campi di battaglia gli hanno negato. E’ questo il pericolo maggiore, e Unione europea e paesi europei possono fare molto per evitare che ciò accada, confortando Kyiv, non solo economicamente, militarmente e accelerandone il più possibile l’ingresso nell’Unione, ma anche sul piano discorsivo, che è fondamentale.

Ma un eventuale dopoguerra potrebbe essere difficile anche per Putin e soprattutto per la Russia. Il primo – che tanti temono e da cui tanta parte dell’élite russa è soggiogata – riuscirebbe probabilmente a vantare una vittoria che non c’è, celando una sostanziale sconfitta e morendo sul trono. Ma alla sua morte i dibattiti e le fratture sul significato, il prezzo, anche ma non solo umano, e gli effetti della guerra nonché di quella della rottura col resto dell’Europa e della potenziale subordinazione alla Cina non potranno che essere intensi, e divisivi.

Torniamo per chiudere al ruolo dell’Unione europea e dei paesi europei, a partire dalla dichiarazione che hanno emesso l’altra notte, una dichiarazione ineccepibile che Roma ha fatto bene a firmare – unendosi a una Coalizione dei Volenterosi tenuta così ufficialmente a battesimo – e che lascia sperare. Essa saluta il tentativo di porre fine a una guerra terribile, giustamente definita di aggressione, e nota che una pace giusta e duratura e la sicurezza dell’Ucraina ​richiedono “un approccio che combini diplomazia attiva, sostegno all’Ucraina e pressione sulla Federazione Russa affinché ponga fine alla sua guerra illegale”, nonché “garanzie di sicurezza solide e credibili, che consentano all’Ucraina di difendere efficacemente la propria sovranità e integrità territoriale” perché “l’Ucraina ha la libertà di scelta sul proprio destino”.

La dichiarazione è però minata dalle nostre, crescenti debolezza e marginalizzazione. Abbiamo finalmente capito che l’Unione europea, malgrado il nome pomposo, è un’utilissima associazione di stati che per fortuna esiste ma che è, almeno al momento, condannata dal suo codice genetico a essere inservibile in una crisi politica e militare, come è quella che stiamo vivendo. La nascita della Coalizione è quindi un ottimo segno, ed è un bene che l’Unione firmi la dichiarazione con lei. Ma non bisogna nascondersi la sgradevole realtà della nostra situazione, che richiede da un lato serietà e impegno per ricostruire – se ci si riesce – la forza e l’indipendenza europea, e tatto e diplomazia finché quella forza non ci sarà, il che vuol dire – e nel caso migliore – almeno alcuni anni.


Il prossimo passo avanti è capire (e decidere) che alla base di quella forza devono stare un autonomo ombrello atomico europeo (un esercito comune è un obiettivo irrealistico e perciò finto e dispersivo) e grandi investimenti per avere al più presto una nostra intelligenza artificiale, un nostro internert, una nostra rete sicura di email, una nostra rete satellitare e vettori di lancio capaci. Per fortuna, la scienza europea c’è ancora. Speriamo ci sia la guida politica.

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