La fotografia come mestiere. Gianni Berengo Gardin è morto, a 94 anni

Decano del fotogiornalismo italiano, ma si sentiva un artigiano. Mentre tutti continuavano a cercarlo per scoprire il segreto delle sue opere

Lo ha ripetuto fino alla fine di non essere un artista o un poeta. “Sono un artigiano”, diceva nelle tantissime interviste rilasciate negli ultimi anni: “Per me si tratta di un mestiere come il calzolaio, l’ingegnere, il dottore”. Tutti, invece, continuavano a cercarlo per scoprire il segreto delle sue fotografie. E lui, non volendo cadere nel tranello, ripeteva che no, era tutto merito di chi stava davanti all’obiettivo. In una delle ultime conversazioni con la stampa, quella rilasciata lo scorso marzo a Tempi, Giuseppe Beltrame gli ha chiesto perché le persone desideravano vedere in lui un artista. E lui: “Per il grande bisogno di creare dei miti”. Gianni Berengo Gardin, decano del fotogiornalismo italiano, ci ha lasciati oggi a 94 anni. E non avrà più occasione di opporsi alla celebrazione del suo mito.

Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, è cresciuto a Venezia per poi stabilirsi a Milano nel 1965. Come quasi tutti gli autori della sua generazione, si forma fotograficamente nell’alveo dei circoli fotografici dilettantistici. Il suo era “La Gondola” di Venezia, dove conosce un altro grande nome: Paolo Monti. Passa presto al professionismo e inizia a collaborare con il Mondo di Mario Pannunzio, realizzando immagini che lo faranno notare dalle più importanti testate italiane e straniere. Da artigiano quale si concepiva si occupava un po’ di tutto: dal reportage sociale alla fotografia di architettura e industriale. Il libro del debutto è “Venise des saisons” del 1965, con testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani. Nel 1969 le sue immagini del manicomio di Gorizia, insieme a quelle di Carla Cerati, vengono selezionate da Franco Basaglia per il libro “Morire di classe”, che il medico distribuisce ai parlamentari per incoraggiare l’approvazione della legge 180. Nel 1976, con Cesare Zavattini, anche lui lavora a Luzzara, come aveva fatto Paul Strand e ne nasce “Un paese vent’anni dopo”, rivisitazione del capolavoro del neorealismo in fotografia. Seguono poi un’infinità di altre pubblicazioni e mostre in Italia e all’estero. Più passava il tempo, più veniva richiesto. Simpatico, affabile. Era il nonno di tutti i fotografi.

Fino alla fine è stato fedele alla lezione di Henri-Cartier Bresson, inserendosi nell’alveo del reportage sociale o, se vogliamo, della fotografia umanista in bianco e nero. E’ stato capace di creare immagini che sono arrivate al grande pubblico, come quella del maggiolone in riva al mare o della coppietta che si bacia sotto ai portici. Si stupiva che fossero definite “iconiche”, ma non se ne dispiaceva troppo. Ha ignorato, scientemente, le sirene dell’arte contemporanea, al contrario di quanto ha fatto la generazione di Luigi Ghirri, che ha aperto la rotta per altri lidi. Con la rivoluzione del digitale, difese con tutte le forze l’analogico, iniziando ad apporre sulle proprie stampe il timbro “vera fotografia”, per attestare l’assenza di trucchi da Photoshop. All’arrivo dell’intelligenza artificiale, aveva più di novant’anni e altro a cui pensare. A Beltrame, che gli ha chiesto che come si poneva di fronte alla morte, ha risposto: “Non sono credente. Non ho paura della morte, però mi fa arrabbiare, perché devo lasciare gli affetti, e le foto, il libri, i modellini costruiti da bambino”.

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