Una morte sempre viva

Il “Trionfo” a Palermo, capolavoro che parlava al ’400 con la stessa veemenza con cui parla al nostro tempo pauroso

“Eggià la Commaraccia Secca de Strada-Ggiulia arza er rampino”. Così, con un colpo di teatro popolare e feroce, Gioachino Belli mette in scena la Morte come presenza familiare e minacciosa, sempre in agguato tra i vicoli di Roma. Siamo nella prima metà dell’Ottocento, quando Belli, impiegato pontificio e spirito inquieto, compone oltre duemila sonetti in romanesco, dando voce al popolo della Città eterna con uno sguardo ora caustico, ora pietoso. Per il popolo romano la “Commare Secca” è la raffigurazione della Morte sulla lapide della buca elemosiniera della chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte in via Giulia. Dal Cinquecento, l’Arciconfraternita, proprietaria della chiesa, si occupa di recuperare i corpi abbandonati nei campi o trascinati dal Tevere, per dar loro cristiana sepoltura e ancora oggi continuano a fare opere di bene. Una devozione funebre e misericordiosa che il Belli trasforma in maschera romanesca: la Morte si aggira viva tra i vivi, pronta a farsi avanti con cinismo e puntualità.



Non a caso, proprio da quel verso prende spunto il titolo del primo film di Bernardo Bertolucci, La commare secca, su soggetto originale di Pier Paolo Pasolini. Siamo nel 1962, in una Roma che ha ormai abbandonato l’epica del neorealismo, ma dove sopravvive un’umanità ai margini del boom economico. Qui la morte non ha più la lingua tagliente del dialetto, ma si insinua nella trama rarefatta dei giorni, come una presenza silenziosa e ineluttabile. I protagonisti si muovono tra campi incolti, borgate, argini del fiume e conducono vite senza radici né salvezza, catturate da una macchina narrativa che gira in tondo ma non dà risposte. E’ una morte tragica, secca davvero – senza redenzione, senza mistero.



Se nella capitale la morte è un fatto su cui un poeta può ironizzare con cinismo, nella Galleria regionale della Sicilia a Palazzo Abatellis essa diventa apparizione monumentale ed enigmatica. In questa estate di temperature apocalittiche che arroventano la Sicilia, il Trionfo della morte è un capolavoro considerato tappa obbligata per ogni turista di passaggio a Palermo: come se tutti, istintivamente, cercassimo un’immagine che rappresenti la fine per esorcizzarla, dandole sembianza concreta. L’enorme affresco staccato da Palazzo Sclafani e datato attorno alla metà del Quattrocento impone al visitatore uno sguardo doppio: dal basso, dove il corpo del fruitore appare minuscolo e spaesato, e dall’alto, dalla loggia preesistente del primo piano, dove ci si può sedere e contemplare la scena nella sua interezza. In entrambi i casi, il confronto è inevitabile. Quella Morte a cavallo, uno scheletro armato d’arco, colpisce con le sue frecce in modo indistinto dame e cortigiani, laici e prelati, ci osserva attraverso i secoli con una freddezza inquietante. In un’epoca di guerre, carestie, epidemie e crisi religiose, queste immagini danno forma a un senso diffuso di precarietà.

Originariamente decorava un cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo. Nel ’53 il trasferimento a Palazzo Abatellis a opera di Carlo Scarpa


Originariamente l’affresco decorava uno dei cortili dell’Ospedale Grande e Nuovo voluto da Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona e di Sicilia. Un ospedale pubblico, destinato ad accogliere malati e indigenti, dove la rappresentazione della Morte aveva anche una funzione pedagogica, per ricordare a chi soffre che nulla è più democratico della fine. Lì, tra le corsie e i porticati, la Grande Mietitrice a cavallo parlava ai vivi con la stessa veemenza con cui oggi parla a noi, in un tempo segnato da paure globali.



L’affresco fu staccato nel 1944 per motivi di tutela e infine trasferito nel nuovo museo, dove nel 1953 il maestro veneziano Carlo Scarpa, architetto-artigiano dalla precisione ossessiva e dal pensiero plastico, viene incaricato dell’allestimento della Galleria regionale della Sicilia a Palazzo Abatellis. Dà vita a uno degli interventi museografici più studiati e ammirati al mondo. Sceglie per il Trionfo della morte una collocazione che non è neutra. Fa limare il muro per farvi entrare l’opera, che misura circa sei metri per sei, e la dispone su un moderno supporto mobile posizionato nella parete presbiteriale della originaria chiesa cinquecentesca della Pietà, inglobata nell’attuale percorso museale. E’ uno spazio carico di memoria religiosa, e al tempo stesso di silenzio. Non costruisce nuovi elementi, ma trasforma gli esistenti in dispositivi narrativi: la verticalità dello spazio, la monumentalità dell’affresco, la possibilità di osservarlo anche dall’alto, in un secondo tempo, affacciandosi sulla doppia altezza della cappella. Qui, fino a una ventina di anni fa – prima che le normative museali imponessero barriere più rigide – Scarpa aveva posto soltanto una corda da porto a segnare il confine tra spettatore e vuoto, affidandosi a un equilibrio delicato tra contemplazione e fiducia. Il grande affresco è incorniciato da due asole laterali, ricavate appositamente nel muro, e tinte di una tonalità ambrata che ne esalta la presenza senza appesantirla. La luce zenitale, filtrata da un velario progettato con cura millimetrica, lo avvolge in una sospensione quasi materica. E’ una visione che ritorna, che si rinnova a distanza di stanze e di sguardi, chiudendo un circuito percettivo calibrato come una variazione architettonica. Non sorprende che Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, abbia definito questo allestimento “la migliore ambientazione museale che mi sia capitato di vedere in vita mia”. Il risultato è una messa in scena potente e misurata, dove l’architettura non incornicia l’opera ma la ascolta, la accompagna, la rende esperienza.

Per Walter Gropius, “la migliore ambientazione museale che mi sia capitato di vedere”. L’esorcismo della paura della peste



Il Trionfo della morte non raffigura un evento. Non c’è narrazione, non c’è centro, non c’è svolgimento. E’ un campo di tensioni organizzate sulla parete come in un vortice: tra bellezza e orrore, movimento e gelo, sacro e profano. Come scrive Michele Cometa, nel suo saggio Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità (edizioni Quodlibet), l’affresco “intercetta frequenze di una storia plurisecolare, un intreccio di voci che lega l’Europa intera ed esorcizza una paura, la più grande di tutte: la peste”.



In un’epoca in cui la parola si rivela insufficiente, è l’immagine a prendere il carico del senso. “Come un’epidemia – scrive ancora Cometa – s’erano diffuse queste storie per compensare l’Epidemia. Da un unico ceppo, o da famiglie di pesti combinate, si diffonde per l’Europa, da Parigi a Madrid, da Colonia e Firenze, da Anversa alla Sicilia, il racconto della morte che pretese di farsi scienza con il ‘bien morir’… Un racconto di morte per restituire alla vita tutto il suo senso, per stemperare in sillabe e rime la terribilità della fine, per far visione di un evento cui nemmeno la teologia poté dare un senso”.



Da un capolavoro anonimo del passato all’autorialità consapevole dei maestri del Novecento, la riflessione sulla morte evolve, ma non perde intensità. E’ lungo questo filo conduttore che si innesta il dialogo tra l’autore sconosciuto del Trionfo della morte, Picasso e Guttuso, due artisti che hanno saputo reinterpretare, con linguaggi moderni e tensione politica, l’iconografia del dolore e della fine. In questo contesto risulta particolarmente significativa la decisione di accostare l’affresco a due opere cruciali del secolo scorso – Guernica di Pablo Picasso, nella versione arazzo del 1976 e proveniente dal Museo Unterlinden di Colmar, e la Crocifissione di Renato Guttuso, dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – nella mostra Attraversamenti, allestita di recente davanti al grande affresco di Palazzo Abatellis e curata da Serena Baccaglini, Marco Carapezza e Maddalena De Luca (catalogo Silvana editoriale). L’esposizione ha messo in luce un legame spesso evocato ma raramente esplorato con rigore: quello che unisce l’iconografia del Trionfo a quella di Guernica e della Crocifissione, a partire dalla sorprendente somiglianza tra i cavalli. Un destriero scheletrico, con la testa cubista ante litteram, appare nell’affresco quattrocentesco come emblema di terrore assoluto, e riemerge – urlante, contorto, straziato – sia nell’opera di Picasso che in quella di Guttuso, come simbolo ricorrente di violenza e destino, filo rosso che attraversa secoli di rappresentazioni della morte.



Guttuso, come si legge nei suoi scritti, considerava il Trionfo della morte “la grande eguagliatrice siciliana” ed è stato probabilmente uno dei primi estimatori in Italia dell’autore di Guernica. “Un giorno parlai con Picasso: conosceva l’affresco, non direttamente ma da illustrazioni” – sono le parole di Guttuso riportate da Maddalena De Luca nel suo testo in catalogo. E precisa che con ogni probabilità si trattava di “foto Alinari in bianco e nero presenti nel ricco archivio di proprietà del pittore di Malaga, successivamente donato al Museo Picasso di Parigi, ove sono confluite le oltre 15.000 fotografie raccolte da Picasso”, che sincretizzava la storia dell’arte attraverso la sua personalissima cifra stilistica. “Al di là delle suggestioni evocate dal raffronto tra le opere in mostra, è senz’altro un racconto affascinante, denso di documentazione, quello dell’intesa tra Pablo Picasso e Renato Guttuso, due intellettuali che condividevano non solo le medesime scelte politiche e culturali ‘di campo’, ma soprattutto un’irrefrenabile desiderio di esprimere attraverso le loro proprie opere un deciso rinnovamento dell’arte stessa e della società; la medesima ansia di libertà e anticonformismo, il netto rifiuto della guerra e l’aspirazione alla pace”. Tre opere, tre tempi, tre artisti e contesti diversi ma accomunati da una meditazione potente sulla morte: il cavallo, la violenza, l’assenza di redenzione.

Nella mostra “Attraversamenti”, si accosta l’affresco a “Guernica” di Picasso e alla “Crocifissione” di Guttuso. Il cavallo è il filo conduttore



Nel dopoguerra attraversato da tensioni ideologiche, poeti e pittori militavano insieme, come ricorda Evelina De Castro nel catalogo della mostra Attraversamenti, “nelle riviste, nelle case editrici, ma si dividevano anche nelle prese di posizione intellettuali e nelle scelte artistiche”. Un fermento dialettico e autentico, distante anni luce da quello odierno, fatto spesso di testimonianze in video, hashtag e messaggi di celebrità. In quel clima, l’editore palermitano Flaccovio affida a Libero de Libero, poeta e critico d’arte vicino agli artisti del realismo romano, la curatela di una monografia sul Trionfo della morte fotografato da Enzo Sellerio. A distanza di vent’anni, Leonardo Sciascia vi apporrà una breve chiosa, evocando un confronto silenzioso tra la morte di Dürer nell’incisione, Il cavaliere, la morte e il diavolo del 1514 – “stanca la Morte, stanco il suo cavallo” – e quella di Palermo e di Guernica: altro che stanchezza, qui c’è urgenza, tensione, allarme.



La tela originiaria di Guernica, dipinta nel 1937 per denunciare il primo bombardamento aereo su una città, avvenuto durante la Guerra civile spagnola, mostra la brutalità della morte inflitta a una popolazione inerme ed è conservata al Museo Reina Sofia di Madrid. E’ la prima rappresentazione visiva di un attacco aereo sistematico: una tragedia collettiva rappresentata senza consolazione. La Crocifissione di Guttuso, realizzata nel 1941 in piena dittatura fascista, rivoluziona il tema tradizionale del Cristo sofferente. Il corpo di Cristo, nudo e contorto, diventa icona degli oppressi – partigiani, intellettuali, dissidenti – tutti crocifissi dal peso della Storia. Nell’esposizione del 1942 al Premio Bergamo la tela suscitò scandalo, non tanto per il contenuto politico quanto per la nudità delle figure femminili, la Maddalena su tutte. Guttuso voleva turbare, scuotere, portare alla coscienza le contraddizioni del presente.


Il cavallo diventa punto di convergenza tra le tre opere: l’inquietudine ritorta del destriero di Guernica, il dolore concentrato nel collo teso del cavallo in primo piano nell’opera di Guttuso, e quello imponente e scheletrico del Trionfo. Mentre l’affresco quattrocentesco rappresenta una fine collettiva e ineluttabile, gli artisti moderni puntano il dito contro la violenza esercitata dal potere, trasformando la morte da evento universale a conseguenza diretta dell’azione umana e politica.

Il “Trionfo della morte” non è firmato e non ha un autore conosciuto. Una condizione di forza: l’artista si ritira per far parlare l’immagine



Il Trionfo della morte non è firmato e non ha un autore conosciuto – il sogno degli storici dell’arte sarebbe trovare un contratto o un documento che ne attesti la committenza, trattandosi di un’opera pubblica di tale portata. Che un capolavoro del genere non abbia un nome preciso può sembrare, oggi, un enigma che affascina. Eppure è proprio questa assenza a renderlo universale. L’anonimato non è una mancanza, ma una condizione di forza: l’artista si ritira per far parlare l’immagine. In un’epoca in cui i grandi messaggi sono spesso affidati alla visibilità dei singoli, quelle figure mute del passato sembrano indicare un’altra via: il gesto collettivo, il messaggio che non cerca l’autorevolezza del nome ma la verità della visione.

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