Un Pincio colossal per Trump

Il presidente americano vuole un parco di statue accanto al Monte Rushmore per celebrare gli “eroi americani”. Ce la farà per il 2026?

Donald Trump sogna da sempre di esser celebrato con oggetti fisici. In ogni sua avventura imprenditoriale ha voluto appiccicare in lettere cubitali il suo nome dappertutto, dalle torri alle bistecche (le fallimentari Trump steak), dai casinò ai campi da golf. Il presidente è attentissimo alla rappresentazione della sua immagine, tanto da aver fatto modificare un quadro in uno sperduto ufficio pubblico del Colorado, di cui nessuno avrebbe mai saputo nulla, perché non era soddisfatto di come era venuto fuori il suo ciuffo biondastro. Quando la fedelissima segretaria alla Sicurezza interna Kristi Noem, allora deputata del South Dakota, regalò a Trump un modellino del Monte Rushmore, il monumento nazionale con i quattro presidenti, fece una piccola aggiunta. Alla destra del grande liberatore degli schiavi, Abe Lincoln, inserì il faccione di The Donald. “Sì ch’io fui quinto tra cotanto senno”, direbbe Dante. Vedere le sue fattezze tra i quattro presidenti lo convinse che quel suo sogno era davvero possibile: celebrato in vita insieme a George Washington, a Thomas Jefferson, a Theodore Roosevelt e a Lincoln. Da allora i repubblicani alla Camera hanno fatto una proposta formale per aggiungere l’ex immobiliarista televisivo alla collina di granito, ma i geologi per ora dicono che dal punto di vista materiale è impossibile, citando questioni strutturali.



Ma se non può vedere il suo faccione sul monte Rushmore, allora Trump ha deciso che vuole dedicarsi a costruire un suo parco di statue, con tutti gli americani, “eroi”, che lui ammira. Un Pincio a stelle e strisce, personale e schizofrenico, non lontano dai faccioni storicizzati di pietra bianca. Ha deciso di costruirlo proprio lì, in South Dakota, sul massiccio delle Black Hills, dove nel 1923 si decise di scolpire i volti dei quattro grandi presidenti americani. Il pattern continua: quello era sì un omaggio a quattro dei leader che avevano guidato nei secoli la nazione, ma la decisione di costruire la gigantesca scultura all’aperto – i volti sono alti 18 metri ciascuno – fu una vera e propria scelta di marketing, un modo per rendere attrattivo uno stato poco abitato e piuttosto desolato come il South Dakota, che ha un terzo della popolazione del quartiere di Brooklyn, trasformando il parco sotto le colline nere in località turistica. La scelta fece arrabbiare i nativi, i Lakota, che consideravano il massiccio un luogo sacro, ma si andò comunque avanti, e il tutto fu completato nel 1941. E oggi l’immagine dei quattro presidenti di granito è uno dei simboli nazionali, uno dei monumenti più celebri, da copertina della Lonely Planet, parodiata in ogni occasione possibile. E così, come il Monte Rushmore, anche il “giardino degli eroi americani” che Trump ha proposto nel 2020 e che vorrebbe vedere completato l’anno prossimo, è un misto fra celebrazione della storia nazionale, definizione della cultura politica e, ovviamente, occasione turistica per staccare biglietti all’ingresso, e quindi ennesimo business.



Non è un caso che l’idea del “giardino degli eroi” sia venuta a Trump nel 2020. La morte di George Floyd, ennesimo nero ucciso dai poliziotti, aveva da qualche mese risvegliato il movimento Black Lives Matter che aveva organizzato gigantesche manifestazioni in giro per l’America e per il mondo. Manifestazioni che alla fine diventarono furia iconoclasta, distruggendo monumenti e chiedendo un collettivo ripensamento dei celebrati sui piedistalli. Proprio non ce la faceva, Trump, a vedere la statua a cavallo del generale sudista Robert E. Lee, in Virginia, coperta di graffiti. Gli è venuto un colpo al cuore quando davanti alla Jefferson High School di Portland, in Oregon, hanno tirato giù la statua del terzo presidente, scrivendo sul basamento “proprietario di schiavi”. Busti di Ulysses Grant, statue di Colombo e monumenti al generale polacco Casimir Pulaski vennero vandalizzati. E pure a Londra, il povero Winston Churchill, deturpato. Ogni volto di ottone sfigurato per il presidente era un dolore, segnale che anche le statue non sono eterne, lui che ha sempre sognato, aspirante monarca, gli onori bronzei di un Windsor o di un condottiero di ventura. Come i re francesi prima della rivoluzione, Trump immaginava che una statua fosse per sempre. E così, quel 4 luglio del 2020, con mezzo mondo ancora agitato dalle proteste, Trump è andato al Monte Rushmore a vedere i fuochi d’artificio e ha fatto una promessa: avrebbe costruito un giardino di statue degli eroi americani, per proteggerli dalla folla infuriata, contro quella “cultura rivoluzionaria di sinistra che vuole distruggere la Rivoluzione americana”, un monumento “contro la cancel culture”. Lì è nata così l’idea di questo santuario, dove nessuno potrà far capitolare le teste di ghisa. “Questo giardino degli eroi nazionali, sarà il Monte Rushmore di Trump?”, si è chiesta la Cnn.


Nel progetto iniziale dovevano esserci giusto pochi “eroi”, alcuni padri fondatori e un paio di icone della storia statunitense, suffragette, uomini di frontiera, esploratori, la prima astronauta, e poi molti eroi afroamericani – una scelta bipartisan – dai primi abolizionisti a Martin Luther King, passando per Harriet Beecher Stowe, l’autrice della Capanna dello Zio Tom, e per Jackie Robinson, il primo giocatore di baseball nero della Major League. Personaggi che più o meno piacciono a tutti, figure celebrate nelle lezioni delle elementari negli anni 50 e 60, da sussidiario delle medie. Vari founding fathers, poi un gruppetto di grandi militari, il generale Patton ovviamente – il film su di lui, Patton, generale d’acciaio è il preferito di Trump – soldati della Seconda guerra mondiale, generali di brigata della Guerra civile e ovviamente Douglas MacArthur, comandante supremo nel Pacifico, che gestì la disfatta e l’occupazione del Giappone. Come ciliegina contemporanea e segnale ideologico, Trump nella lista aveva messo anche tre figure chiave del repubblicanesimo: Ronald Reagan, di cui si sente in qualche modo erede, il giudice conservatore della corte suprema Antonin Scalia, e Billy Graham, influente predicatore evangelico battista, organizzatore di “crociate” cristiane e di battaglie per i diritti civili nel Sud, e consigliere di vari presidenti, da Nixon a Bush padre, oltre che amico della regina Elisabetta.


Ma Trump è sempre stato un uomo che pensa in grande. Perché accontentarsi di una decina di persone già storicizzate quando si può creare una sorta di parco a tema di tutti i suoi personaggi preferiti, dove la scultura è confermata come massima onorificenza? E così il piano è cresciuto, e in vista dei 250 anni dalla firma della Dichiarazione d’indipendenza, il 4 luglio del 2026, Trump ha sfruttato l’occasione per un’inaugurazione in grande, pensando a un giardino con 250 statue, una per ogni anno di gloriosa storia americana. Gli aspiranti autocrati amano fuochi d’artificio, parate e merchandising limited edition da vendere sul proprio sito ufficiale, e ogni occasione è buona. Si vede già il berrettino Make Statue Great Again nel gift shop. Ma è una corsa contro il tempo. Gli esperti dicono che non sarà possibile, soprattutto se si vogliono fondere le statue, che ancora non sono state disegnate, in territorio americano. Anche perché negli Usa non ci sono molti scultori figurativi, che invece si trovano, dicono, soprattutto in Cina. Con Trump il rischio Made in China è sempre dietro l’angolo. Anche perché nel piano ufficiale voluto da Trump è vietata la statuaria “modernista o astratta”. Statue realistiche, non quella roba espressionista o concettuale che piace ai progressisti snob delle gallerie di Soho. Non c’è nemmeno un anno di tempo per la presentazione del giardino. Gli scultori dovranno consegnare il lavoro tre giorni prima. E c’è chi parla già di usare stampanti 3D. E così da memoriale della grandiosità a stelle strisce, si rischia un abborracciato museo delle cere di Madame Tussauds, dove ci si aspettano i commenti perfidi degli influencer e dei comici dei late show sulle fattezze degli eroi. “Sarà qualcosa di veramente straordinario”, ha detto il presidente a febbraio. “Produrremo alcune delle più belle opere d’arte esistenti”. Nei documenti mandati agli artisti si parla di “riflettere lo splendore dell’eccezionalità senza tempo della nostra nazione”. Il governo deve ancora affidare le statue agli scultori, che prima dovranno proporre i vari progetti, per essere accettati da una commissione. Budget di 200 mila dollari a statua. “Trump userà il budget tagliato alla cultura per il suo parco di statue”, hanno titolato i giornali. Nel sofferto “Big Beautiful Bill” passato dai repubblicani, che toglie il cash al National Endowment of the Arts (negli Usa non esiste un ministero della cultura, ma un’agenzia che sovvenziona “le arti”), Trump ha inserito 34 milioni di dollari per il suo giardino.


Ma chi sono i nomi aggiunti a questa sorta di Pincio del west? Sappiamo che Trump, oltre a qualche musical – Cats e Il fantasma dell’opera – a Elton John e ai Village People, non ha mai mostrato grande sofisticatezza, con i suoi interni dictator chic e la sua allergia per la letteratura. E le sue gaffe sulla storia nazionale sono ben documentate. La lista di eroi scelti, piena di classiconi, regala però anche qualche sorpresa, e quasi ci si stupisce dei personaggi tirati fuori. Forse sono scelte fatte per accontentare tutte le anime che compongono la coalizione Maga. Ci sono figure religiose del ‘700, missionari, mistici trappisti del Kentucky, ornitologi delle pianure, giocatori di baseball, altri sportivi da primato, qualche fisico e donne che hanno contribuito ai successi della Nasa, inventori, industriali, giudici, Walt Disney, il fondatore della mega catena di supermercati Walmart, Buffalo Bill, e pure Steve Jobs e il giocatore dei Lakers Kobe Bryant. Per arrivare a 250 ecco altri attivisti dei diritti civili, amici di Martin Luther King, presidenti, uomini in uniforme (anche stranieri) e, siccome c’era subito stata la polemica sulla mancanza di nativi, ecco Toro Seduto. Fotografi del far west, ritrattisti di corte edoardiani e cantori visuali della cultura del diner. Ogni arte ha i suoi rappresentanti, dal jazz all’architettura. Sul fronte letterario troviamo la lista di autori da leggere l’estate della prima liceo, da Hemingway a Emily Dickinson, da Melville a Harper Lee, con il bonus della prima poetessa afroamericana, uno dei tanti tocchi per far star buoni gli attivisti da campus. E poi un po’ di Hollywood degli anni d’oro, come la coppia Bacall-Bogart. Sul lato eroismo puro troviamo, nella lista, il giovane Todd Beamer, che l’11 settembre del 2001, provò a lottare contro i terroristi sul volo 93 che doveva finire sulla Casa Bianca e che si schiantò invece, grazie a lui, nei campi della Pennsylvania.

I quotidiani sono rimasti stupiti dalla presenza del presentatore televisivo canadese Alex Trebek, del gioco a premi Jeopardy, morto nel 2020, e un po’ da quella della svedese Ingrid Bergman. E poi ovviamente, tra Whitney Houston e Alfred Hitchcock, Cristoforo Colombo, forse uno statement contro chi lo accusa di colonialismo chiedendo la rimozione dei suoi busti. Una delle scelte più enigmatiche è quella della filosofa dei totalitarismi Hannah Arendt, famosa certo, influente, ma non proprio l’icona Maga che ci si aspetta – e infatti, dove sono le libertarie Ayn Rand e Isabel Paterson? Ci sono però altre figure chiave del conservatorismo del secondo Novecento, come il televisivo William F. Buckley Jr., che “creò” Reagan (e di cui è uscita una splendida biografia quest’anno di Tanenhaus) e il suo padrino, Whittaker Chambers, che dopo esser stato comunista diventò un pensatore del conservatorismo. E anche maestri nemmeno troppo mainstream, come il pensatore Russell Kirk, che con il suo The Conservative Mind, nel 1953, tracciò le linee guida del tradizionalismo a stelle e strisce. Non poteva mancare il monetarista Milton Friedman, campione del libero mercato che dei dazi diceva: “Sono stupidi”. Una hall of fame, un corso accelerato di storia statunitense, una copertina da scolastico Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band piena di barbe da guerra civile e di cuffiette da Mayflower e con un pizzico di pensiero neoliberale. Un pantheon che mostra la schizofrenica influenza culturale-politica di un presidente bevitore di Coca-Cola che vuole costruire questo album di figurine tridimensionale che, come il Monte Rushmore, sembra sempre di più trasformarsi in un parco divertimenti dell’American Dream. Nelle parole di Trump: “Un posto dove celebrare i più grandi americani che abbiano mai vissuto”. E ci si aspettano le polemiche per ogni nome, per ogni volto, e per ogni passato. Nel 2020 il presidente diceva, di fronte ai vandali scatenati da Black Lives Matter: “La nostra nazione sta vivendo una spietata campagna per cancellare la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri bambini”. Ora i bambini potranno forse essere indottrinati, con un biglietto giornaliero da 20 dollari, dalle fattezze di un Elvis di ghisa che balla vicino al missionario San Junípero Serra e a un presentatore televisivo che conduceva l’equivalente americano de L’eredità.

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