Lo sport come affare di stato. I forti appetiti della politica

La grande confusione del dopo Malagò, i crucci del presidente della Federtennis Binaghi. E il decreto da convertire in legge (Mattarella permettendo) in cui compaiono tutte le partite che il governo vuole giocare da protagonista

Per dirla calcisticamente, sono saltate le marcature. Vi ricordate le squadre di Zeman? Ecco, siamo più o meno al punto della partita in cui al diavolo gli schemi e chiunque prende il pallone vuole andare fino in porta. Peccato solo che ci si diverta molto meno. Per essere più poetici, si sta come sugli alberi le foglie, anche se siamo in piena estate. Indecisi se affidarci a una delle massime di Confucio resa celebre da Mao Tse Tung – grande è la confusione sotto al cielo – o a uno degli aforismi, sempre attuali, di Ennio Flaiano: la situazione è grave ma non seria. Per qualità del copione e capacità degli interpreti di questo spettacolo, propenderemmo per Flaiano. Per il disorientamento generale che si avverte, invece, vale Confucio. Siamo alla fine di un’era, del resto. Con le dovute proporzioni, lo sport italiano sta vivendo il suo 1989. E’ caduto il muro (Malagò), e con esso – primo elemento da sottolineare – per qualcuno è venuto definitivamente giù anche l’ultimo l’argine alla politica.

Ed è curioso – e tanto basterebbe a mettersi in poltrona con i popcorn a godersi lo spettacolo – che al momento la vittima più illustre di questo assalto alla diligenza – così lo percepisce il diretto interessato – sia il presidente della Federtennis Angelo Binaghi. Cioè, il più acerrimo nemico di Malagò, convinto sostenitore dell’intervento della politica (sul tema, c’è una collezione di esternazioni dell’ingegnere, ne scegliamo una: “La politica entra in scena quando lo sport non fa quello che deve fare e non è in grado di migliorarsi da solo”), il primo tifoso di Sport e Salute, fino a quando, SeS, non se l’è trovata nella governance delle Atp Finals, messa lì per decreto, con la firma di Abodi, la regia di Giorgetti e, al netto di qualche quarto d’ora di celebrità trovato qua e là, passata alla Camera pure con i voti dell’opposizione (del resto il tennis dallo stato ha preso novantasette milioni di euro in cinque anni, ora che lo stato dice che vuole vedere come investe quei soldi può essere uno scandalo?).



La vicenda delle Finals tennistiche è emblematica di come la politica, in questa fase di deregulation, stia procedendo sullo sport in ordine sparso, esposta al vento delle logiche di partito, ma anche di questioni personali e messaggi trasversali. Per qualche ben informato, tanto per dire, Binaghi, che nella maggioranza ha come alleato Barelli, paga un suo storico rapporto con i Cinque stelle, ora che i sondaggi li danno di nuovo competitivi. Quello con il mondo pentastellato, per il numero uno della Fitp, è un vecchio debito di gratitudine. Chiara Appendino, allora sindaca di Torino, fu determinante per portare le Finals nel capoluogo piemontese. La vice di Giuseppe Conte è nel Consiglio federale del tennis, confermata vicepresidente, nonostante le perplessità di più di qualche consigliere, anche nell’ultima tornata elettorale, quella che ha inaugurato il settimo mandato consecutivo di Binaghi. Il quale, sempre secondo i ben informati, negli ultimi tempi avrebbe parzialmente compromesso il rapporto con il presidente di Sport e Salute Marco Mezzaroma, di cui è nota la vicinanza alle sorelle Meloni.



Sul rapporto con la controllata del Mef, sempre che il Senato converta in legge il decreto così come uscito dalla Camera, ne vedremo delle belle. Cosa farà Binaghi? Davvero rinuncerà a quella montagna di soldi, che un anno fa fu una garanzia convincente per i signori dell’Atp che dovevano decidere se andare a gara o prolungare, e di quanto, l’assegnazione delle Finals all’Italia? Se davvero non si giungerà a una tregua, che ne sarà dei due contratti in essere tra Fitp e SeS, uno, quello relativo all’organizzazione degli Internazionali d’Italia, scaduto a maggio, e l’altro, quello per cui Sport e Salute è una mera fornitrice di servizi a supporto dell’organizzazione delle Finals, in scadenza a novembre? Anche qui, fortunato chi si godrà lo spettacolo, con o senza popcorn. Intanto, ogni volta che può, non le manda a dire. Anche sabato, a Cagliari, per ricordare Gigi Riva, a chi gli chiedeva conto dell’assenza del governo alla finale di Wimbledon, con Sinner in campo, ha detto, per nulla sibillino: “Evidentemente, nonostante la crescita del tennis, il calcio continua ad avere uno strapotere. E il fatto che (il ministro, nda) fosse presente lo scorso anno alla finale della Paolini, è un’aggravante”. Con Abodi seduto accanto.



Tutto questo, comunque, non basta a spiegare il perché l’altro giorno, d’improvviso, fonti della maggioranza di governo (sic) abbiano fatto arrivare alle redazioni sussurri di un Mattarella maldisposto verso la scelta di affidare a un decreto legge, non ravvisandone i caratteri dell’urgenza, alcune delle disposizioni prese sullo Sport, compresa la governance delle Atp Finals. Sulla quale, peraltro, alla Camera si era trovata una quadra votata da tutti, anche dall’opposizione, per cui in futuro ogni evento sportivo che richiedesse un contributo pubblico superiore ai 5 milioni di euro “subirà” lo stesso trattamento delle Finals. Perché, allora, il presidente della Repubblica, di fatto l’unica voce fuori dal coro su questa questione, è voluto essere della partita? Voleva lanciare un messaggio? E a chi, considerato che non risulta si senta particolarmente vicino a Binaghi (men che meno a Sinner, che gli ha dato buca un paio di volte)? E chi volevano colpire quelli che hanno veicolato l’indiscrezione? Abodi che ha firmato il decreto? O Giorgetti che ne è la mente? Ma erano rappresentanti della maggioranza! Sia come sia, colpisce anche la fermezza con cui il ministro dello Sport ha annunciato, anche pubblicamente, che il governo avrebbe tirato dritto e portato a casa la conversione in legge del decreto. Vedremo cosa accadrà, oggi è attesa una resa dei conti.



Insomma, tra forze centripete e centrifughe contemporaneamente in azione, fughe in avanti per carriera o ripicca, vendette personali, messaggi trasversali, incursioni del fuoco amico, si fa fatica a mettere ordine a questo gran casino. E’ come se l’uscita di scena di Malagò (in realtà, come vedremo, non è mai uscito) abbia scoperchiato un vaso di Pandora. Fino al 26 giugno scorso, il mondo dello sport italiano era diviso in blocchi: detto proprio grossolanamente, chi stava con Malagò e chi contro, e, dunque, fatalmente più in sintonia con Sport e Salute, la creatura – ricordiamolo – nata nel 2018 su iniziativa congiunta di Lega (Giorgetti) e Cinque stelle (un po’ tutti, ma il front man era Valente, che poi dovette cedere il passo a Spadafora) con lo specifico obiettivo di ridimensionare il potere e le influenze del presidente del Coni, che aveva raggiunto l’apice con il governo Renzi. Il risultato, innegabile e al di là di ogni giudizio di merito, è che a uscirne con le ossa rotte è stato l’ente, espropriato del suo patrimonio immobiliare, privato della cassa e svuotato del grosso della sua pianta organica.



Un depauperamento che, però, né l’opinione pubblica, travolta dai successi olimpici di Tokyo e Parigi, né – quel che più conta – gli atleti, hanno mai toccato con mano. Non c’è stato presidente del Coni più vicino agli atleti di Giovanni Malagò. Nelle ore finali, mentre passava il testimone al suo successore, la raccolta di post di saluto, che lui, con certa vanagloria, rilanciava puntualmente sul suo profilo, è stata una Spoon River di amore e gratitudine. Malagò, con ostinazione, non ha mai mollato un centimetro. Nei suoi dodici anni da presidente, ha girato l’Italia come un globetrotter, sempre al posto giusto nel momento giusto, al fianco di atleti, tecnici, dirigenti, società. A celebrare i vincenti, a confortare gli sconfitti, a dare forza agli infortunati, a sostenere progetti. E negli ultimi mesi, più si avvicinava la fine, anche quando pure l’ultimo tentativo di ottenere una proroga era andato a vuoto, più intensificava la sua presenza. Che non è mai stata solo a uso e consumo della sua visibilità.



Quello che i suoi avversari non hanno mai capito, fino all’ultimo, è il lavoro che Malagò ha fatto in questi anni con le federazioni sportive, le discipline associate, gli enti di promozione – insomma con i componenti del Consiglio nazionale del Coni – soprattutto quelli più piccoli, meno ricchi, che praticano discipline lontane dalle luci della ribalta: gli ha messo a disposizione il suo patrimonio di relazioni, conoscenze, amicizie. Serviva uno sponsor in più per organizzare un evento? Ci pensava Giovanni. Una via più breve per ottenere udienza presso un rappresentante delle istituzioni? Chiamava lui. E i soldi, magicamente, arrivavano. O le porte, velocemente, si aprivano. Dodici anni così, come si poteva pensare di andare alla resa dei conti, il 26 giugno scorso, convinti di batterlo? O meglio, convinti di battere il suo candidato? Non era la sua prima scelta, Luciano Buonfiglio, questo era noto anche prima del voto. Malagò avrebbe lanciato Diana Bianchedi, sicuro che sarebbe stato difficile per chiunque, fuori dal Consiglio nazionale del Coni, schierarsi contro la candidatura di una donna di successo, atleta vincente e manager capace e preparata. Il governo italiano, per la prima volta affidato a una donna, avrebbe dovuto applaudire la prima donna presidente del Coni. Ci ha provato, Malagò, ma ha trovato subito l’opposizione di molti presidenti federali. Gli stessi che mai e poi mai avrebbero votato Silvia Salis, per la quale è stato più facile strappare al centrodestra Genova che racimolare una quarantina di voti tra i consiglieri nazionali del Coni. E allora, ha ripiegato su Luciano Buonfiglio, scelta fatta con buon senso e una certa dose di paraculaggine, passateci il termine. Sapeva, Malagò, che il presidente della Canoa si sarebbe presentato subito con l’aria del pacificatore e del mediatore tra interessi anche opposti, venendo incontro in questo modo alla richiesta di basso profilo che il governo auspicava dopo gli anni dell’iperpresenzialismo malagoniano, a volte fin troppo rumoroso e ingombrante.



Ci aveva visto lungo, le prime mosse del nuovo presidente del Coni vanno proprio nella direzione opposta allo spirito e al metodo, che si potrebbe avvicinare al centralismo democratico delle organizzazioni leniniste, che Malagò aveva imposto al governo dell’ente. Dibattiti più ampi all’interno, gestione consociativa all’esterno: la scelta di istituire venti commissioni di lavoro, sui temi più disparati, dalla riforma della giustizia sportiva alla sostenibilità, imbarcando un centinaio, forse più, tra dirigenti, avvocati, professori universitari, presidenti federali e, ovviamente, rappresentanti a vario titolo del governo, è il suo biglietto da visita. Ma intanto, il 26 giugno, Malagò, il più bravo a contare i voti (copyright Franco Carraro), non solo ha piazzato tutti i suoi nella Giunta del Coni, dal fedelissimo Di Paola, premiato con la vice presidenza, a Laura Lunetta, la più votata tra i dirigenti, ma ha fatto in modo che ci entrasse, carico di voti, anche un dirigente molto vicino a Fratelli d’Italia, il presidente di Opes Juri Morico. Svuotando di forza e convinzione, in questo modo, il sostegno del governo al candidato dell’opposizione, il povero Luca Pancalli, già azzoppato dall’operazione Carraro, a cui alla fine sono rimasti davvero fedeli solo il ministro Abodi e Paolo Barelli. Troppo poco per battere Malagò.



Ad un mese dal voto, si avverte una sensazione di vuoto. L’interesse per le evoluzioni del nuovo Coni è già venuto meno. Il basso profilo che chiedeva il governo è già realtà. Buonfiglio avrà bisogno di tempo per costruire la sua leadership, ammesso che la cosa gli interessi. E in questa situazione, è molto più facile per gli altri stakeholder dello sport italiano occupare nuovi spazi. La battaglia per la governance delle Atp Finals non è l’unica. Nel decreto Sport che oggi, come auspica il ministro Abodi, il Senato dovrebbe convertire in legge (Mattarella permettendo), compaiono, una dietro l’altra, tutte le altre partite che il governo ha deciso di giocare da protagonista: l’America’s cup che taglia fuori la Regione Campania; l’agenzia di controllo dei bilanci dei club di calcio e basket che apre un nuovo fronte con il presidente della Figc Gravina; il commissario a Euro 2032 con cui si vogliono mettere le mani sulla ricchissima partita degli stadi; l’organizzazione delle Paralimpiadi di Milano-Cortina affidata a un commissario straordinario, con poteri speciali, per toglierne un altro pezzetto a Malagò e ai suoi.



E poi ci sono le iniziative ministeriali, proliferate col passare dei mesi: Giorgetti e la pallavolo; Lollobrigida e il padel; Santanché e il tennis; Tajani e i campioni da esporre come trofei del made in Italy (un anno fa fece impressione, anche al presidente della Repubblica, vedere Sinner reduce dai suoi primi Australian Open andare a Palazzo Chigi e alla Farnesina prima che al Quirinale, dove infatti alla fine non andò). Ma l’elenco è lungo. Scendendo più in basso, nel sottobosco della politica, troviamo per esempio l’onorevole Roberto Pella, una mina vagante di Forza Italia, presiedere una Lega ciclistica professionistica che rappresenta tre società sportive e una quindicina di organizzatori, eppure si è fatta assegnare dall’ultima legge di Stabilità sette milioni e mezzo di euro per promuovere gare professionistiche che in realtà si contano sulle dita di una mano. Soldi che la Federazione vede solo transitare sul suo conto, senza che il movimento ben più vasto che rappresenta possa beneficiarne. E’ la politica, bellezza. Ci penserà il presidente Mattarella.

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