Il giocatore degli anni Novanta ha conquistato l’argento olimpico a Mosca e l’oro europeo a Nantes. Dopo il campo è stato seconda voce di Franco Lauro nelle telecronache Rai e presidente della Legadue, introducendo l’inno italiano prima di ogni partita
Marco Bonamico te lo ricordi con due maglie: quella della Virtus e quella azzurra della Nazionale di Sandro Gamba con cui ha conquistato l’argento olimpico a Mosca e l’oro europeo a Nantes. Erano gli anni Ottanta, ma Marco era già un giocatore degli anni Novanta. Tiro, fisico, muscoli, intelligenza. Lo chiamavano il Marine, un soprannome che spiega tutto e non era certo ispirato solo ai suoi capelli spesso portati a spazzola. Se ne è andato a 68 anni, strappato da un virus contro cui ha cercato di combattere fino all’ultimo, lasciando un grande vuoto nel mondo del basket e nel cuore di chi, come Renato Villalta, lo considerava come un fratello. Marco era stato una bandiera della Virtus Bologna dove aveva vinto due scudetti in quattro anni (non consecutivi). Dopo il primo anno alla Virtus era stato pure alla Fortitudo, ma poi era tornato a casa in un girovagare continui che lo ha portato anche all’Olimpia Milano, a Siena, Napoli, Forlì e Udine.
Dan Peterson lo ha allenato a Bologna e Milano. Marco è stato uno dei suoi giocatori simbolo perché era uno di quelli che sputava sangue ogni volta che scendeva in campo. Il coach che lo aveva voluto a Milano nel 1979, aveva chiesto a Bogoncelli di riscattare il prestito a tutti i costi, ma purtroppo Bogoncelli aveva altro per la testa in quell’anno, voleva vendere la società e così Bonamico non restò a Milano dove sarebbe diventato un interprete perfetto nell’Olimpia che sta per rinascere con Peterson. “Marco aveva anche una grande intelligenza, dentro e fuori dal campo. Parlava l’inglese correntemente, quindi comunicava con gli americani senza problemi. Era anche onesto. Un giorno, mi disse, “Coach, se porto la testa con me, sono un giocatore da Nazionale. Se dimentico la testa a casa, sono un giocatore da Serie C.” Abbiamo vinto una gara importante a Brescia a inizio campionato. Marco non ha giocato bene e entrato nello spogliatoio ci dice, “Grandi voi. Io non c’entro niente.”
“Era insomma uno che sapeva prendersi le sue responsabilità”, racconta coach Peterson che lo ha voluto accanto a lui qualche mese fa quando è stato indotto nella Hall of Fame. “Marco aveva ciò che gli allenatori chiamano ‘killer instinct.’ Si parla in senso sportivo, ovvio. Lui aveva 16 anni quando sono arrivato ad allenare la Virtus Bologna nel 1973-74. Aveva un tiro bruttissimo, con il gomito destro puntato … a destra. Il mio grandissimo vice-allenatore, Ettore Zuccheri, l’ha preso e lo ha messo a palleggiare contro il muro per ore, giorno dopo giorno. Fino a che Marco non ha chiesto: “Ettore, fino a quando devo fare questo?” sentendosi rispondere: “Finché non metterai il gomito puntato al canestro sempre.” In un giorno, Marco ha messo a posto il suo tiro… Questo per spiegare la sua determinazione”.
Dopo il campo è stato seconda voce di Franco Lauro nelle telecronache Rai e anche al microfono non diceva cose banali. Ha anche fatto il dirigente diventando presidente della Legadue e introducendo l’inno italiano prima di ogni partita. Aveva idee, aveva testa. Era generoso, anche se veniva da Genova, come gli dicevano scherzando i suoi amici.