L’autogol di Trump che può far aumentare il deficit commerciale

Il perseguimento a ogni costo del pareggio commerciale significherebbe produrre in patria beni che non si possono realizzare sul territorio americano in modo efficiente, perché mancano le risorse o la capacità necessarie. E gli accordi bilaterali potrebbero non essere una vittoria per la Casa Bianca

Nell’ordine esecutivo di venerdì 1 agosto, con cui ha lanciato una nuova raffica di dazi, Donald Trump ha ribadito che il deficit commerciale rappresenta una minaccia straordinaria per la sicurezza nazionale e per l’economia americana. Così, il povero Lesotho, colpevole di vendere diamanti agli Stati Uniti, subirà un dazio del 15 per cento. Con un reddito medio di cinque dollari al giorno, il piccolo paese africano non può permettersi di importare nulla dagli Stati Uniti, né può spostare le proprie miniere da un continente all’altro.

Il perseguimento a ogni costo del pareggio commerciale, che i Maga hanno messo al centro del proprio programma, ignora i fondamenti dell’economia. Il commercio internazionale conviene perché permette a ciascun paese di specializzarsi nelle produzioni in cui ha un vantaggio comparato. Eliminare il deficit con ogni singolo partner commerciale significherebbe produrre in patria beni che non si possono realizzare sul territorio americano in modo efficiente, perché mancano le risorse o la capacità necessarie a farlo in modo conveniente.

L’aspetto più paradossale di questo approccio, tuttavia, è un altro. Mentre afferma di voler appianare il deficit commerciale, Trump firma accordi bilaterali che rischiano di aumentarlo. Le intese negoziate finora chiedono ai partner commerciali di investire massicciamente negli Stati Uniti, nella speranza di rafforzare un settore manifatturiero che negli ultimi decenni ha perso occupazione, e di incentivare il ritorno di produzioni delocalizzate. Al di là della dubbia capacità vincolante di questi accordi (che, nel caso dell’Europa, è praticamente nulla), gli investimenti diretti da Europa e Giappone, se mai si realizzassero, finirebbero per aumentare il deficit anziché ridurlo. Da un lato, infatti, nuovi stabilimenti richiedono importazioni di macchinari, componenti e know how prodotti soprattutto nei paesi che hanno firmato gli accordi. Dall’altro, i profitti delle imprese straniere insediate negli Stati Uniti vengono rimpatriati, peggiorando ulteriormente il saldo delle partite correnti. Del resto, anche l’obiettivo di riportare occupazione nel settore manifatturiero è discutibile. Gli economisti della Casa Bianca sembrano ignorare che il declino dell’occupazione industriale è stato più che compensato dalla crescita dell’occupazione nei servizi: un processo tipico delle economie avanzate, dove i fattori produttivi si spostano verso settori a maggiore efficienza e valore aggiunto, accrescendo il benessere complessivo.

Sul piano contabile, gli accordi commerciali siglati finora (se mai si realizzeranno) sono inevitabilmente destinati ad aumentare il deficit delle partite correnti. Più capitali affluiscono, più cresceranno le uscite future – sotto forma di importazioni aggiuntive o di rimpatrio di utili. La strategia di Trump rischia quindi di aggravare lo squilibrio che dice di voler sanare. Promuovere gli investimenti diretti esteri significa, in sostanza, accettare che Europa e Giappone continuino a svolgere il loro ruolo tradizionale di economie esportatrici di risparmio in eccesso, mentre l’America resta il grande assorbitore di capitali, accumulando deficit commerciale. Con una differenza paradossale: oggi questo assetto è stato ratificato come risultato negoziale e presentato come una vittoria. La contraddizione è evidente: se l’obiettivo era ridurre il deficit commerciale, gli accordi avrebbero dovuto puntare a favorire le esportazioni e gli investimenti diretti americani all’estero, non l’afflusso di capitali stranieri. Aprire i mercati europei ai prodotti statunitensi, per esempio abbattendo le barriere che frenano la concorrenza digitale, avrebbe avuto un impatto ben più incisivo. Era questa la priorità delle multinazionali americane, ma l’Ue è riuscita a respingerla, difendendo la propria autonomia regolatoria. L’ennesimo autogol di Trump nasce dal più grossolano degli equivoci: non c’è alcun motivo per esaltare le esportazioni in quanto tali. Le esportazioni sono un mezzo, non un fine. Il fine sono proprio le importazioni, nel quadro di scambi che, se ben regolati, avvantaggiano tutte le parti.

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