Gli eroi di Tor Vergata

Mezzo milione? Un milione? Due milioni? I numeri contano poco. Quel che conta è che a Roma, oggi, non si sente parlare di crisi della fede. Spesso questi ragazzi, gli eredi dei mitici Papaboys, sono stati accusati di essere dei fanatici. Quando mancano loro, però, si abbozzano lunghe e dense analisi sul vuoto e sulla crisi

Saluto ancora una volta tutti voi, specialmente quelli che sono più indietro, in ombra, e non vedono niente. Ma se non hanno potuto vedere, certamente hanno potuto sentire questo ‘chiasso’. Questo ‘chiasso’ ha colpito Roma e Roma non lo dimenticherà mai!”, disse un divertito Giovanni Paolo II ai milioni di giovani – forse due, forse due e mezzo – che riempivano in quell’agosto di venticinque anni fa la spianata di Tor Vergata. Era il loro Giubileo, agitavano bandiere, cantavano con il vecchio Papa che agitava le mani mentre i cori intonavano il “Jesus Christ you are my life” divenuto una colonna sonora fissa a ogni appuntamento per under 30, ancora oggi. Era il popolo dei Papaboys, i ragazzi che poi avrebbero affollato Roma cinque anni più tardi, accompagnando Karol Wojtyla alla morte. In veglia silenziosa sotto le finestre del Palazzo apostolico e poi durante le interminabili code verso San Pietro per l’ultimo saluto al loro Papa. Il primo e fin lì unico che avessero mai visto. Quindi per i funerali, invocando il “santo subito”.

Tor Vergata, anno 2000: un altro mondo. C’era la speranza per il millennio entrante, le Torri gemelle newyorchesi erano in piedi, Osama bin Laden lo conoscevano solo gli esperti di geopolitica e qualche inviato di guerra che s’era occupato di attentati in posti lontani migliaia di chilometri dall’Europa. C’era ottimismo, era quasi una sorta di Belle Époque del Ventunesimo secolo, senza il sentore che come quell’altra, cent’anni prima, sarebbe stata la pausa prima dell’avvento di guerre e disastri. Ma allora nessuno ci pensava. Si discuteva perfino di inserire in una Costituzione europea – sì, la Carta era un progetto che pareva essere sul punto di concretizzarsi – un richiamo alle radici giudaico-cristiane del continente. C’era chiasso e Giovanni Paolo II era certo di una cosa: quel popolo era vivo e Roma non l’avrebbe più dimenticato. E così è stato.

Venticinque anni dopo, le cronache sono tutte tese al confronto, al rimando a quel momento iconico divenuto in molte analisi, però, il più classico dei canti del cigno. Specie in Europa, dove chissà quanti di quei Papaboys oggi frequentano ancora le chiese, sono attivi nella catechesi, ci credono ancora. Chissà quanti figli di quei ragazzi di allora oggi saranno a Tor Vergata ricordando ciò che vissero i loro genitori. Saranno parecchi, certamente. Roma ne è invasa da giorni: bandiere ovunque, cappellini e borracce – che non s’usavano nel 2000, ma se è per questo neanche gli smartphone – canotte e sneakers. Cori nelle piazze, davanti alle chiese, in metropolitana. Code in pizzeria, nei bar, nei negozietti che vendono qualunque cosa sia più o meno commestibile. Le stime, come sempre, divergono. Saranno molti in più dei cinquecentomila che s’erano iscritti (anche nel 2000 la cifra finale fu ben superiore al numero delle registrazioni). Ragazzi che, pare incredibile a dirsi, sono nati anni e anni dopo la morte di Giovanni Paolo II e che, nella maggioranza dei casi, hanno vissuto davvero con un solo Papa, Francesco. Un movimento di popolo che s’era già messo in cammino ad aprile, quando migliaia di adolescenti avevano preso pullman e treni per calare su Roma: era in programma la canonizzazione del loro beato, il futuro “santo di Internet”, roba che un quarto di secolo fa non sarebbe stata nemmeno contemplata. Poi, nel giorno della prevista canonizzazione di Carlo Acutis, parteciparono invece al novendiale seguito alla morte di Francesco, il Papa che chissà cosa avrebbe detto a Tor Vergata. Sicuramente avrebbe usato accenti diversi rispetto a quelli del trascinatore Wojtyla, avrebbe mostrato meno ottimismo sul futuro, li avrebbe bonariamente ammoniti sui rischi di un mondo che vede saldarsi le tessere del grande puzzle chiamato Terza guerra mondiale. Si sarebbe chiesto, forse, quanto quei ragazzi fossero lì per “incontrare Cristo ed essere da Lui rinsaldati nella fede e nell’impegno di seguirlo con coerenza”, come detto domenica scorsa all’Angelus dal successore Leone XIV, e non invece per un godibile e neppure troppo afoso weekend romano. Papa Prevost, in un post su X, auspicando che si conservino “sempre nei vostri cuori tutto quello che vivrete durante il Giubileo”, ha anche chiesto “per favore, che non rimanga solo un ricordo in belle foto. Vorrei che tutti possano vedere in voi il volto di Cristo. Perciò, amate e servite gratuitamente nella quotidianità, perché avete sperimentato la gioia di essere stati amati prima, e perché avete ricevuto tutto gratuitamente dal Padre Dio”. E girando per Roma, dal mattino alla sera, si vede che non sono poi tanti quelli venuti in città per una foto ricordo e basta. Adolescenti francesi che cantano il Magnificat in Ton Parisien, tra negozi di abbigliamento con i saldi esposti in vetrina, spagnoli che a tarda sera si distendono sfiniti sui gradini della Chiesa del Gesù. Portoghesi che fanno amicizia con libanesi e coreani, italiani che ripropongono la hit-parade dei canti da oratorio mandati a memoria da decenni e da un paio (almeno) di generazioni. Martedì sera, al termine della messa inaugurale, lo stesso Pontefice a sorpresa si è concesso un giro in papamobile fra i centomila e più presenti in piazza. Una volta sceso, al microfono ha ripetuto lo stesso concetto: voi siete la luce del mondo, il sale della terra. Speriamo voi siate la speranza. Ecco.

Nonostante le campane a morto sulla fede che non è più quella di una volta, il refrain noioso fin troppo sentito sulle chiese vuote, c’è il fatto che centinaia di migliaia di ragazzi si sobbarcano spese e viaggi per venire a Roma e stare con il Papa. Provengono da 146 paesi, dicono le statistiche, alloggiati chi in Fiera e chi nelle parrocchie che si sono messe a disposizione. Le iniziative sono tante, come sempre. Forse troppe, al punto da far sembrare le comitive tante Marta affaccendate in mille e più cose fino al punto di perdersi la parte migliore. Ma alla fine, come nel 2000, quel che resterà sarà la veglia con successiva notte all’addiaccio, prima della messa. Non sono le fiumane di popolo viste allora, i milioni e milioni che riempivano campi e spianate? Pazienza. D’altronde, chi le ha più viste dopo Giovanni Paolo II? Nelle settimane del ricovero al Gemelli di Francesco, c’era chi guardava piazza San Pietro mentre i cardinali pregavano il Rosario per il Papa infermo. E colpiva subito il vuoto. E’ vero, il Pontefice non era lì, ma a chilometri di distanza, in un appartamento ospedaliero. Eppure, l’assenza fisica non bastava a spiegare il fatto che a parte qualche suora e qualche seminarista, gruppi di laici impegnati in parrocchia (come si dice), curiosi e turisti, di folle neanche l’ombra. Non c’entrava Francesco: era la manifestazione palese di un cambio di epoca. E anche ai funerali, di gente lì convenuta solo per il saluto a lui, non è che ce ne fosse poi molta di più: bastava fare un giro della piazza, in mezzo ai fedeli, per accorgersi che la maggior parte di quanti erano lì faceva parte di comitive di pellegrini con tour romano e ingresso della Porta santa prenotati chissà quanto tempo prima e vagonate di adolescenti calati su Roma per la canonizzazione di Acutis. Il problema non era certo Francesco, dopotutto c’era folla perfino al funerale di Paolo VI, il Papa considerato altero e distaccato, poco amato dalle masse che prima rimpiangevano la bonomia e la sapientia cordis di Giovanni XXIII e poi esulteranno per il sorriso di Albino Luciani. E’ che in epoca di secolarizzazione, con le analisi su di essa che da decenni hanno decretato la morte della fede religiosa in tutta Europa, anche il fenomeno della corsa verso il cuore della cristianità ha diminuito la sua velocità. Tant’è che ogni volta che un pellegrinaggio raggiunge cifre record di iscritti – come a Chartres, in Francia, ogni anno a Pentecoste – subito si grida al miracolo e ci si affanna a studiarne le ragioni, a indagare il profilo umano e sociale di quelle masse che per giorni decidono di camminare in mezzo ai campi tra messe e confessioni discutendo e pregando sulla “regalità di Cristo” e temi non proprio da bestseller in libreria o acchiappa-like su qualche social. Una certa fetta di menti illuminate derubrica il tutto a fanatismo, a minoranze tradizionaliste che ancora non si sono accorte di vivere nel Terzo millennio, epoca in cui la devozione popolare è cambiata e certi gesti del passato non è che abbiano poi molto senso. E’ stata perfino criticata la processione del Corpus Domini, prima che il Papa american-peruviano ripristinasse la camminata di un’ora tra San Giovanni e Santa Maria Maggiore. Che siano minoranze, non v’è dubbio. Che sia una frangia ferma al secolo scorso, anche no. Come spiegare allora le migliaia di liceali dell’Île-de-France che a Pasqua sono andati a Lourdes, non certo simbolo di quella che sempre i soloni del cattolicesimo per così dire new age vorrebbero fosse la fede “matura”? E queste migliaia di ragazzi e ragazzini che affollano Roma, sono tutti retrogradi?

La domanda andrebbe rovesciata: non è che i più maturi sono proprio quei ragazzi, e con loro il milione che affollerà la spianata di Tor Vergata? Loro che, diversamente dai Papaboys del 2000, sono catapultati in un mondo occidentale in cui tutto rema contro la fede e la pratica religiosa. In cui il modo per “fare altro” lo si può trovare con un clic sul proprio smartphone, perdendosi fra i reel di Instagram o passando le serate scrollando TikTok mentre i genitori, sul divano, si guardano su Facebook le foto di venticinque anni fa a Tor Vergata. Eroi perché, nonostante tutto, sono riusciti a non perdersi la parte migliore, grazie a sacerdoti pure loro eroici che hanno curato quelle minoranze davvero creative che a dispetto delle lamentazioni stanno sbocciando a ogni latitudine europea. Come i fiori nel deserto. Sembrano pochi, ma quando ci sono e si vedono sono ritenuti una sorta di miracolo.

Quella di Giovanni Paolo II, nell’anno Duemila, non era una Chiesa trionfante. La crisi c’era già, da decenni, e Wojtyla l’aveva capito così bene da mandare i movimenti a ri-evangelizzare il mondo, a scuoterlo e a risvegliare un cristianesimo un po’ assopito tra chi era rimasto fermo alle nostalgie per la cristianità la cui fine era già stata sentenziata con rammarico da Pasolini e chi non aveva ottenuto dal Concilio le soddisfazioni attese. In questi giorni, nel nostro mondo, si celebra pure il giubileo degli influencer cattolici, tanto per dare un’idea del cambiamento d’epoca: si lodano e ringraziano sacerdoti e suore che si sono fatti testimoni – come si definiscono – in questo particolare momento storico. Comunicatori di fede “assumendo il ritmo, le ferite, le domande di chi lo abita, senza cedere alla superficialità, o alle tentazioni del protagonismo”. Su questo, in qualche caso, sarebbe lecito muovere osservazioni (preti che propongono balletti con parrucche in testa e nasi da clown davanti all’altare lasciano più interrogativi che certezze), ma chi muove perplessità o addirittura indignazione, è ancorato a schemi superati. Piaccia o no, i Claudel che si convertono dopo aver ascoltato il Magnificat a Notre-Dame sono perle rarissime. Certo, è comprensibile che chi era a Tor Vergata nel 2000 possa faticare a convincersi che il proprio figlio diventi cattolico grazie a un reel su Instagram, ma la prospettiva cambia se si dà retta a quanto gli influencer ripetono: la missione è quella di “samaritanizzare”, cioè rendersi prossimi agli altri e rendere presente ovunque la misericordia di Dio. E’ un primo passo, lo dicono le indagini che in vari contesti europei vengono realizzate. Laddove si scorge un barlume di risveglio religioso, l’attenzione è spesso destata da un video di qualche secondo captato dal proprio smartphone: qualche parola ben detta, una frase accattivante che fa breccia nelle solitudini di questo tempo. Non basta, è ovvio: da lì inizia un percorso fatto di incontri, di amicizie, di ricerca. E’ molto più faticoso oggi che al principio del millennio, tempo in cui la fede e l’appartenenza erano qualcosa di più evidente e scontato. Gli oratori erano ancora oasi frequentate e felici, non solo ridotti a posteggio per i figli mentre i genitori lavorano o sono impegnati a fare la spesa. Era una cultura diversa, si scendeva ancora in strada a parlare, giocare e litigare. Si entrava in contatto con la realtà vera, altro che clic sulla app che dietro l’intento di connetterti con il mondo in realtà ti fa entrare in nicchie disconnesse da quel che accade fuori dalla finestra. Gli influencer vanno bene, a patto che – elemento cruciale – siano testimoni credibili.

Anche questa è la Chiesa che oggi si metterà in cammino verso la spianata di Tor Vergata. Diversa da quella di un quarto di secolo fa, ma con le stesse domande e le stesse esigenze. Di certo è che chi c’era allora, come c’era a Colonia, Sydney, Madrid, Cracovia e a tutti gli altri appuntamenti globali che si sono susseguiti, se lo ricorda. Ricorda l’entusiasmo e le fatiche, le gioie e pure il disorientamento. Magari anche qualche delusione. Ma se lo ricorda. “L’impressione è che, da un lato i questi giovani sperino in un avvenire bello e ricco, ma dall’altro siano alla ricerca di qualcosa di più importante, di prezioso e di significativo”, ha detto alla Vita Cattolica don Riccardo Pincerato, responsabile del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile. Che si sofferma anche su un dato sempre più evidente, da un capo all’altro dell’occidente: la cosiddetta Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012) si mostra attratta dalla fede, magari non sempre sapendo bene cosa sia, quali ne siano i connotati. Ma di certo non la respinge: “La fede in questo momento sta diventando – un po’ come la famiglia – non qualcosa da dare per scontato, ma qualcosa da ricercare e un dato sul quale investire”. Quell’universo che oggi si metterà in cammino verso la spianata di Tor Vergata, portandosi dietro entusiasmo, allegria e il normale carico di domande sul proprio futuro. Intanto, però, vanno lì. Insieme e contenti, veri pellegrini di speranza. Per pregare insieme al Papa. Di certo, oggi, non è una cosa scontata.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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