Meloni e il nuovo potere di Roma

Connessioni, equilibri, anti milanesità e poker face. Non si può capire nulla sui mille giorni di Meloni a Chigi, e nemmeno sul suo futuro, senza ragionare sulla forza del social network con cui governa l’Italia: la romanità. Indagine

La decisione del governo di conferire poteri speciali alla città di Roma attraverso l’avvio di un disegno di legge costituzionale che con l’aiuto del Pd potrebbe diventare realtà nel giro di pochi mesi e senza dover passare dal referendum, sempre che Matteo Salvini non si faccia saltare politicamente in aria data la circostanza difficile da gestire che vede al momento la Lega impegnata a dare poteri urgenti alla città più odiata dalla Lega e non alle regioni più amate dalla Lega, ci permette di allargare rapidamente l’inquadratura su un tema politico senza il quale è impossibile capire qual è uno dei punti di forza del governo Meloni e in particolar modo del suo presidente del Consiglio. Il tema in questione può apparire frivolo, persino imprendibile, ma è uno dei temi che si trova dietro al successo politico di Meloni: la sua romanità. Per molto tempo, la romanità di Meloni è stata descritta come un sinonimo di provincialità, a volte anche zotico, ma la verità è che la romanità di Meloni nei suoi mille giorni a Palazzo Chigi è stata come un passepartout con cui abbattere i muri della diffidenza, con cui costruire connessioni con mondi lontani dal proprio e con cui smussare gli angoli anche del proprio populismo.

La famosa romanizzazione dei barbari, con il partito di Meloni, è avvenuta in modo naturale, immergendo il proprio partito in una Roma più grande della vecchia enclave di Colle Oppio, e utilizzando tutto il patrimonio di contatti costruiti negli anni anche con i propri nemici per stabilire una vicinanza umana che ha permesso alla premier di essere non solo rispettata ma anche capita persino dai suoi avversari politici. La romanità, per Meloni, è capacità di avere i tempi della politica, essendo cresciuta nella città della politica, è capacità di capire quando è necessario parlare, quando è necessario tacere, quando è necessario attaccare, quando è necessario sparire, e la romanità per Meloni, in questi anni, ha rappresentato il vero elemento con cui Meloni ha saputo disintermediare gran parte del mondo politico e istituzionale che la circonda.

Roma, per Meloni, è come se fosse un social network all’ennesima potenza, con cui riuscire a stare in contatto anche con persone distanti politicamente dalla premier, e la diplomazia del WhatsApp, per la premier, ha una valenza non inferiore a ciò che era la televisione per Berlusconi e i social network per Renzi, creando un rapporto di intimità in questo caso non con gli elettori ma con i così detti decision maker. La romanità di Meloni, che è una romanità molto diversa da quella che spesso si descrive, perché la Roma che Meloni incarna non è solo quella delle periferie, ma è quella della Balduina, di Roma nord, dove è nata e cresciuta, che poi si è saldata con la Roma meno centrale della Garbatella, dove Meloni è maturata, che poi si è unita con la Roma del Torrino, dove Meloni abita, è un tratto distintivo del carattere meloniano perché è ciò che ha permesso in questi anni alla presidente del Consiglio di essere percepita come una underdog che fa parte però di un establishment riconosciuto, che si riconosce e che soprattutto non si spaventa. E’ attraverso la romanità che Meloni governa, a volte in modo quasi andreottiano, romano anche lui, e d’altronde nella politica istituzionale di oggi sono prima di tutto i romani quelli che contano: è nato a Roma Antonio Tajani, capo di Forza Italia; è nato a Roma Fabio Panetta, governatore di Bankitalia; è nato a Roma Carlo Calenda, leader del partito d’opposizione più vicino a Meloni; è nato a Roma Mario Draghi, ex premier con cui Meloni ha provato a essere in continuità; è nato a Roma Carlo Messina, capo di Intesa Sanpaolo, banchiere con cui Meloni ha un rapporto solido, anche se in verità romano è pure Andrea Orcel, romano atipico, con repulsione per la romanità politica.

E non a caso i leader più distanti da Meloni, anche nella sua coalizione, sono i non romani, come Matteo Salvini, e come Matteo Renzi o come Giuseppe Conte o come la fuori sede Elly Schlein, nata in Svizzera, e che nonostante due anni all’opposizione a Roma per Roma è ancora un corpo estraneo. La romanità, per Meloni, leva con cui addolcire il populismo della sua coalizione, è forse l’unico vero tratto di coerenza con il proprio passato, è ciò che ha permesso a Meloni di essere percepita come autentica, anche da chi non la ama, vedi il reportage dal G7 in Canada di Emmanuel Carrère, rimasto folgorato dall’incapacità genuina di Meloni di usare una poker face nei momenti topici degli incontri tra leader.

E la romanità di Meloni è in fondo ciò che la avvicina anche a uno speciale Zeitgeist che sta vivendo in questi mesi l’Italia, con una romanità che si rafforza non solo a colpi di leggi speciali, a discapito forse delle regioni del nord e con la complicità del partito del nord, ma anche grazie a una serie di fattori che sono alla luce del sole. Uno su tutti il fatto, per esempio, che il grosso degli investimenti che passeranno nei prossimi anni dall’Italia arriveranno a Roma, via Pnrr.

Si potrebbe dire che la centralità della romanità nella stagione meloniana ha incoraggiato anche la romanità imprenditoriale a fare passi da gigante per conquistare i templi sacri della milanesità come Mediobanca, in una fase storica in cui Milano è già sotto assedio per altre ragioni. Ma la questione in verità è più generale. E se ci si pensa bene non si possono capire gli equilibri del potere di oggi senza capire in fondo che la grande normalizzazione del melonismo passa, prima ancora che dai suoi passaggi in Europa, da una connessione speciale con un argine naturale all’avanzata dei barbari: quel gran social network chiamato romanità, che tiene lontano Meloni da molte tentazioni populiste e che ha permesso a Meloni di essere insieme underdog ed establishment senza essere per una volta in contraddizione con se stessa e con la sua storia.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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