La benvenuta, eppure tardiva, svolta nucleare dell’Unione europea

La crisi energetica europea e l’inefficacia delle sole rinnovabili spingono molti paesi europei, inclusa la Spagna, a rivalutare il nucleare. Questo apre la strada a una rinascita atomica strategica e sostenibile

La notizia che il governo Sánchez si dichiara disponibile all’estensione di vita dei suoi 7 reattori non è per nulla una sorpresa, per molte ragioni, non ultima il pesante blackout elettrico del 28 aprile scorso. Ma la realtà non ha presentato il conto solo in Spagna: i nodi vengono al pettine ovunque si sia caduti nell’errore di puntare alla decarbonizzazione con fonti intermittenti, stagionali, e soprattutto sincrone (solare con solare, eolico con eolico, e spesso sincrone anche tra loro), senza riconoscere che continuare a installarne dopo una certa soglia fa aumentare enormemente la complessità di gestione e le bollette, senza ridurre tanto le emissioni. L’esempio più eclatante è la Germania, unico tra i grandi paesi europei che ancora non ha preso la decisione di ripartire con la produzione nucleare, nonostante il governo abbia cessato di ostacolarla a livello Ue, e già questo è un primo passo molto significativo. I dati di luglio mostrano che, nonostante i 100 GW fotovoltaici e i 75 GW eolici istallati (175 GW sono 2,7 volte il picco di domanda di luglio), a luglio il 38 per cento dell’elettricità era di origine fossile (lignite, gas e carbone) e l’8 per cento era importato, prevalentemente dalla Francia. Col risultato che, nonostante i costi esorbitanti, le emissioni di CO2 per ogni kWh elettrico generato sono state dodici volte maggiori di quelle Francesi.




L’ingresso del nucleare nella tassonomia verde europea ha per fortuna diradato la nebbia della ragione. Al di là della costituita Alleanza industriale europea sugli Small Modular Reactor, cui di recente ha aderito anche l’Italia, quasi tutti i paesi membri che avevano in precedenza deliberato l’uscita dal nucleare o che ne erano usciti, hanno riconsiderato la loro posizione. E molti di questi hanno già deliberato la costruzione di nuovi reattori della migliore tecnologia disponibile, che oggi è la terza generazione. Ed hanno anche varato interessanti schemi di finanziamento dei lavori, che dopo oltre 20 anni di stasi, in Europa, almeno per i primi reattori, saranno più lunghi della media mondiale, che è di poco meno di 7 anni per un reattore da 1.000 Megawatt, che poi produrrà 8 TWh (miliardi di kWh) all’anno per almeno 60 anni. A tal proposito è di assoluta rilevanza l’estensione al nucleare degli strumenti di remunerazione sinora riservati alle sole rinnovabili, come il prelievo di tutta l’energia prodotta a un prezzo fisso, indipendente (nel bene e nel male) dal prezzo di borsa elettrica. Garanzia che consente il finanziamento a tassi più bassi, e costi di generazione competitivi, tenendo conto che l’energia nucleare è continua e può essere prodotta in aree idonee localizzate dove la domanda è più elevata, e per questo consente di risparmiare sui costi di accumulo e di trasmissione.

La strada appare segnata: servono ora coraggiose e profonde modifiche agli obiettivi del Green Deal, specialmente quelli al 2030, e ai Piani integrati energia e clima che tutti i Paesi Membri hanno definito durante e subito dopo la pandemia, prima che la svolta nucleare europea avesse luogo; ed ora bisogna integrare in modo ottimale nuovo nucleare con solare ed eolico. Non abbiamo tempo da perdere e per questo non dobbiamo aver paura di collaborazioni internazionali: se n’è parlato poco, ma nel recente accordo sui dazi con Trump, alla voce energia, non entra solo il gas naturale liquefatto, ma anche le tecnologie nucleari, combustibile nucleare incluso. Speriamo di avere presto più scambi nucleari e meno scambi fossili.

Giuseppe Zollino


responsabile Energia di Azione

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