La presidente della Commissione ha assunto un impegno abbastanza preciso da compiacere il Potus ma sufficientemente vago per essere vincolante
L’accordo tra l’Unione europea e gli Stati Uniti prevede l’impegno per l’Europa di acquistare prodotti energetici per 750 miliardi di dollari in un triennio. Le reazioni si sono divise tra chi ha chiamato il bluff di una promessa che non può essere mantenuta; chi ha denunciato il vassallaggio dell’Ue; chi sostiene che comunque dovremo aumentare l’import transatlantico, quindi tanto valeva inserirlo nel negoziato. C’è un grano di verità in tutte le tesi.
Diversamente da altri aspetti del compromesso, su questo c’è convergenza tra i comunicati: “L’Ue – dice Palazzo Berlaymont – intende acquistare prodotti statunitensi di gnl, petrolio ed energia nucleare per un valore di 750 miliardi di dollari (circa 700 miliardi di euro) nei prossimi tre anni”. “L’Ue – dice la Casa Bianca – rafforzerà il proprio impegno verso l’America come Superpotenza Energetica acquistando 750 miliardi di dollari in esportazioni energetiche entro il 2028”.
Sul piano quantitativo, nel 2024 l’intero import energetico europeo è costato 376 miliardi di euro: per raggiungere l’obiettivo fissato da Trump (750 miliardi di dollari in tre anni) bisognerebbe triplicare le importazioni dagli Usa attualmente attorno a 80 miliardi di dollari. Ma ciò è praticamente impossibile perché, se raffrontato con l’export totale americano (330 miliardi nel 2024), vorrebbe dire dirottarne circa tre quarti verso l’Ue. Va detto che sul tema c’è una ampia vaghezza: fonti della Commissione hanno fatto sapere che i calcoli sono stati fatti tenendo conto dei volumi attualmente importati dalla Russia, e che per sostituirli potrebbe essere necessario sostenere anche investimenti infrastrutturali.
Dietro a questi dati c’è un secondo problema: è curioso misurare in denaro (anziché in tonnellate o metri cubi) i prodotti energetici. Il controvalore della benzina che mettiamo nel serbatoio può variare in funzione delle dinamiche di mercato, ma per fare venti chilometri abbiamo comunque bisogno di un litro. Quanto questo approccio possa essere illusorio lo conferma la volatilità nel mercato del gas, che nel giro di pochi anni è passato da 10-20 euro/MWh a 300, per poi tornare attorno a 35-50 euro/MWh. A parità di volumi consumati, il controvalore può variare addirittura di un fattore dieci.
Ora, a guidare le importazioni di prodotti energetici è anzitutto la domanda che, negli ultimi anni, è calata in modo sostanziale: considerando tutti i combustibili fossili, l’import dell’Ue è sceso da circa 70 milioni di tonnellate al mese nel 2022 a meno di 60 nel primo trimestre 2025. Questo calo è certamente dovuto a componenti cicliche – contrazione della produzione industriale, temperature invernali miti – ma ha anche componenti strutturali. Tra di esse, le principali sono la dinamica economica di lungo termine (che non lascia presagire un nuovo boom), l’efficacia delle politiche di decarbonizzazione (efficienza energetica e sostituzione dei fossili con energie a basso tenore di CO2) e il depauperamento della nostra base industriale, che in parte è purtroppo irrecuperabile.
Quindi, il fabbisogno prospettico è destinato a scendere, il che rende ancora più improbabile un drastico incremento dell’import dagli Usa, pur assumendo l’azzeramento delle forniture russe, che nel primo trimestre 2025 ancora incidevano per l’11,1% del gas via tubo e il 17% del Gnl. Da Mosca già da tempo abbiamo smesso di acquistare carbone, petrolio e derivati. Quindi lo spazio per sostituire i fornitori sgraditi è limitato e decrescente nel tempo.
In tale contesto, diventa cruciale l’assenza di strumenti attraverso cui l’Ue può imporre di siglare contratti che altrimenti non sarebbero stati firmati. Le importazioni di prodotti energetici non sono orientate dagli stati o dall’Unione, ma sono il frutto di acquisti da parte di società private. Queste si riforniscono secondo un mix di contratti di lungo termine e acquisti spot, col duplice obiettivo di minimizzare i costi di importazione e di assicurarsi la facoltà di servire i propri clienti. I governi e la Commissione possono esercitare una qualche forma di moral suasion sugli importatori europei, ma certo non possono costringerli a compiere scelte che potrebbero andare a detrimento degli azionisti: non si possono obbligare gli operatori europei a contrattualizzare volumi di prodotti senza avere la ragionevole aspettativa di uno sbocco di mercato. Questo tema è particolarmente delicato se si considera che la riduzione dei consumi di fossili è uno degli obiettivi strategici della politica Ue. Allo stesso modo, Trump non può costringere le imprese americane a stringere accordi con quelle europee, se esse trovano prezzi più alti in altre parti del mondo.
Il paradosso è che, fino a un paio di anni fa, si è discusso seriamente di creare una piattaforma europea per l’acquisto congiunto del gas, sul modello di quanto fatto con i vaccini. Tale proposta, contenuta anche nel Rapporto Draghi, è stata giudicata troppo complessa e ha portato solo alla creazione di una piattaforma per l’incontro tra domanda e offerta, peraltro con ben scarsi risultati.
Fortunatamente quel progetto si è bloccato. Perché, in caso contrario, von der Leyen si sarebbe presentata all’incontro con Trump ulteriormente indebolita da un sistema di acquisti centralizzati. Invece la presidente della Commissione ha potuto assumere un impegno abbastanza preciso da compiacere il Potus ma sufficientemente vago – e privo di poteri effettivi – per essere vincolante. Resta da vedere se, presto o tardi, questa ambiguità verrà usata da Trump per rimettere in discussione tutto l’accordo.