È morto Robert Wilson. Il teatro come opera d’arte totale. Bob, l’americano che amava Milano e Spoleto

Il regista è stato figura cardine della cultura contemporanea. Ironico, fantasioso costruttore di allitterazioni visive e sonore, non tollerava si mancasse di rispetto, non tanto all’arte, ma al godimento artistico altrui

Robert Wilson, per il mondo Bob, venne l’ultima volta a Milano lo scorso aprile. Amava molto questa città con cui aveva un rapporto di consuetudine, avendo iniziato a lavorarvi alla fine degli anni Settanta per un balletto Edison al Teatro Nazionale, ma in modo continuativo dal 1987 grazie a una memorabile “Salome” scaligera con la direzione di Kent Nagano, i costumi di Gianni Versace e Montserrat Caballé nel ruolo principale. Venne per l’apertura del Salone del Mobile e la curatela di un progetto di immagini e suoni attorno alla Pietà Rondanini al Castello Sforzesco sulla quale scoppiò una stupida polemica, essendo ormai la gente disabituata a stare in silenzio ad ascoltare i toni bassi del proprio cuore. Lui, questa figura cardine della cultura contemporanea scomparso poche ore fa a 83 anni, stroncato da una malattia fulminante che però non ha avuto ragione della sua voglia di continuare a produrre fino alle ultime ore, stava seduto sul fondo della sala dove è esposto il capolavoro incompiuto di Michelangelo, altissimo e affaticato, ma ancora forte abbastanza da intimare a chiunque entrasse di spegnere il cellulare.

Ironico com’era, fantasioso costruttore di allitterazioni visive e sonore, non tollerava però che si mancasse di rispetto non tanto all’arte, inclusa la sua, quanto al godimento artistico altrui. Andammo a salutarlo, ci univa un progetto comune in memoria di Giorgio Ferrara, per molti anni presidente e direttore artistico del Festival di Spoleto, che aveva prodotto “nove delle mie opere e commedie”, e una uguale venerazione per Adriana Asti, mancata a sua volta, più o meno nelle stesse ore, come ben sanno negli ospedali, la luna nuova è sempre una pessima cosa per le persone anziane e inferme. Parlò di nuovi progetti. Creatore di mondi, questo architetto texano di cui i collezionisti si contendono non solo gli scritti e gli script degli spettacoli, ma anche le celebri sedie, entrate nell’immaginario come nell’archivio comune e condiviso del design, intendeva il teatro come opera d’arte totale, curando ogni dettaglio degli spettacoli che firmava; ma l’impatto del suo lavoro si era appunto sempre esteso alle altre arti e a tutti i campi della creatività fin dal suo primo spettacolo, datato 1968, quando fondò la compagnia di performance sperimentale Byrd Hoffman School of Byrds intitolata a Miss Hoffman, l’insegnante di danza che lo aveva aiutato a superare l’handicap della balbuzie stimolandolo a eseguire movimenti lenti per sciogliere la tensione.

Questa misura dilatata del tempo e dello spazio, questa percezione bergsoniana della realtà, avrebbe determinato tutta la sua carriera e la sua percezione del gesto teatrale, a partire dal celebre Einstein on the Beach, che nel 1976 l’avrebbe consacrato alla fama mondiale insieme con Philip Glass, autore delle musiche. Da miss Hoffman aveva appreso, crediamo, un’altra abitudine: quella di srotolare le parole su una melodia quando le parole stentavano a uscirgli dalla bocca per l’emozione. Sing-sing-singing.

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