Dopo l’accordo con Trump, l’Unione europea s’interroga sul suo rapporto con Pechino. Fra concorrenza industriale nell’export, dipendenza dalle importazioni cinesi e relazioni commerciali asimmetriche: il parere degli economisti Bruni e Poma
“Non possiamo tenere aperti i nostri mercati se la Cina continua a proteggere il suo”. Letta con il senno di poi, questa frase pronunciata dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, all’indomani dell’incontro del 24 luglio con le autorità cinesi, fa intuire con quale animo si fosse recata al vertice con Donald Trump in Scozia due giorni dopo. L’Unione europea teme la concorrenza sleale di un paese che è allo stesso tempo partner e rivale. Insieme, le due regioni rappresentano quasi il 30 per cento degli scambi mondiali di beni e servizi e oltre un terzo del pil globale. Nel 2024, tuttavia, il disavanzo commerciale dell’Unione europea con la Cina è arrivato a 305 miliardi di euro. Ma questa è solo una delle considerazioni che avrebbero suggerito a von der Leyen di non mostrare troppa fiducia nello sviluppo di nuove relazioni economiche con Pechino.
Come spiega un’analisi della banca d’affari americana Goldman Sachs, “il disaccoppiamento Ue-Cina ridurrà il rischio di un’escalation Ue-Usa”. E così, almeno sul piano tattico, è possibile che la strategia della presidente della Commissione si sia ispirata più a ragioni geopolitiche che economiche. Poi, però, bisogna pensare alla crescita europea messa a rischio dal protezionismo americano ed ecco che quella di rafforzare la cooperazione con la Cina diventa una prospettiva da valutare. E’ la cosa giusta da fare? “Dal mio punto di vista, senza dubbio – dice al Foglio Franco Bruni, presidente dell’Ispi, dove è co-head dell’Osservatorio Europa e governance globale, e professore emerito di economia all’Università Bocconi –. Anzi, ho trovato sorprendente che la presidente della Commissione abbia accettato un accordo sui dazi con termini che appaiono così aleatori e penalizzanti. Mi sembrava che i negoziatori di Bruxelles, che in campo commerciale sono i migliori del mondo, avessero dato un’altra impostazione. Ma probabilmente, sono prevalse altre ragioni. Detto questo, sono convinto che queste intese bilaterali siano molto dannose e che si dovrebbe tornare a un approccio multilaterale, cominciando proprio dalla Cina”. Bruni ne fa una questione di principio e di come non disperdere l’esperienza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) anche se gli Stati Uniti non ne volessero più fare parte. “Poi, certo, se in Europa si crea un eccesso di offerta di prodotti cinesi si deve trovare il modo per sedersi a un tavolo per discuterne, tenendo conto di due fattori: che Pechino usa un linguaggio multilaterale e universalistico che riflette la loro economia globalizzata e che la Cina detiene un primato tecnologico con il quale bisogna fare i conti”, prosegue l’economista.
Sul piano più pratico, però, spiega la ricerca di Goldman Sachs, ci sono almeno tre fattori che inducono l’Unione Europea a considerare la Cina come un “rivale sistemico”. Il primo è la concorrenza industriale nel mercato globale delle esportazioni. Negli ultimi 25 anni alla riduzione della quota europea delle vendite è corrisposto un pari aumento della quota cinese. Il secondo è la dipendenza dalle importazioni cinesi. Il deficit commercial dell’Ue con la Cina in termini di beni, esclusa l’energia, ha raggiunto un picco storico a quasi il 2 per cento del pil dell’area. E la dipendenza dalle importazioni non è più limitata ai settori a bassa qualificazione come in precedenza. Il terzo fattore sono gli investimenti diretti. Dall’invasione dell’Ucraina, le esportazioni cinesi e il suo interscambio con la Russia sono raddoppiati, parallelamente gli investimenti diretti Ue in Cina si sono ridotti sensibilmente mentre non è avvenuto il contrario. Inoltre, le relazioni commerciali sono diventate ancora più asimmetriche dopo la pandemia.
“Un rafforzamento della cooperazione non è in contrasto con questo quadro – osserva Lucio Poma, economista dell’Università di Piacenza e capo economista di Nomisma, dove cura un osservatorio sulle imprese eccellenti del paese –. Faccio qualche esempio, Italia e Germania sono concorrenti nel settore manifatturiero, ma non per questo non collaborano. I distretti industriali italiani sono un altro caso di cooperazione e competizione. Francamente non vedo dove sia il problema. Con la Cina l’Europa ha tutto l’interesse a cercare forme di cooperazione nei settori energetico e tecnologico, tenendo presente il dominio quasi esclusivo che quel paese ha delle terre rare”. Esiste il rischio che imprese europee spostino la produzione negli Stati Uniti? “Solo se dovessero percepire i dazi come un limite strutturale e di lungo periodo”, dice Poma.