L’intelligenza artificiale riscrive l’arte della guerra

La Germania ha accelerato una metamorfosi militare senza precedenti: finanziamenti per start-up, AI applicata a strategia e logistica, robotica mimetica e sciami digitali. E l’Europa? O crea il suo “Progetto Manhattan”, o resterà solo un mercato da pacificare

E’successo tutto in fretta. Un tempo Berlino era il simbolo della prudenza militare europea. Oggi è il cuore algoritmico di una rivoluzione tecnologica che sta riscrivendo l’arte della guerra. Droni che decidono quando colpire. Insetti robotizzati che mappano gli ambienti nemici. Algoritmi che trasformano le informazioni raccolte sul campo in istruzioni operative in tempo reale. Non è fantascienza. E’ il presente.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il settore della difesa europea ha cambiato pelle. Non più solo blindati e soldati, ma software predittivi, intelligenze artificiali addestrate su miliardi di dati, visori aumentati, sciami digitali. La Germania guida questa corsa con un approccio quasi da Silicon Valley: innovazione radicale, fondi pubblici e privati, collaborazione con le università, e una convinzione strategica: la guerra del futuro si vince prima che cominci. Addestrando i cervelli delle macchine, non solo quelli degli uomini.

Al centro di questa metamorfosi c’è Helsing, la start-up fondata da Gundbert Scherf. Nata come una scommessa in un’Europa restia a investire in tecnologia militare, oggi è valutata oltre 12 miliardi di dollari. Sviluppa software di intelligenza artificiale capaci di prendere decisioni autonome in contesti bellici, analizzando flussi video da droni, intercettazioni, movimenti sul terreno. In pratica: un sistema nervoso digitale che collega sensori, robot, centri di comando e soldati.

La sede è a Monaco, ma il perimetro è quello dell’intero continente. Helsing è il simbolo di una nuova cultura strategica che si sta facendo largo a colpi di innovazione. L’azienda lavora già con vari ministeri della Difesa, in particolare con quello tedesco e con il britannico. Sta anche integrando i suoi sistemi con i jet Eurofighter e con le flotte di droni di nuova generazione. Obiettivo: autonomia decisionale tattica, interoperabilità NATO, supremazia algoritmica.

Ma la cosa più inquietante – e affascinante – non è la crescita delle imprese, bensì il tipo di strumenti che stanno entrando nei teatri operativi. Il prototipo che ha fatto il giro dei social, rilanciato da Reuters e ripreso da Maurizio Molinari su Instagram, è emblematico: insetti robotici, telecomandati, equipaggiati con microchip “Swarm” in grado di coordinarsi tra loro come uno sciame. Non sono solo gadget da laboratorio. Sono agenti di raccolta dati, osservatori invisibili, talvolta vettori di disturbo. Entrano in grotte, condotti, edifici ostili. Raccolgono immagini, suoni, segnali. E tutto viene processato in tempo reale da un’intelligenza centrale.

Non è un caso che proprio in Germania si parli ormai apertamente di un “Progetto Manhattan europeo”: non più centrato sul nucleare, ma sull’intelligenza artificiale applicata alla difesa. L’analogia è forte: anche allora, negli anni Quaranta, la corsa scientifica era una scommessa sull’esistenza. O inventi prima tu, o verrai travolto da chi inventa meglio. Ora vale lo stesso, ma al posto della fissione ci sono i big data e la capacità di calcolo. Il punto critico non è tecnologico, ma etico e politico. Chi decide se un drone può colpire? Chi verifica se un algoritmo ha imparato bene o ha sviluppato “pregiudizi digitali”? Come si gestisce un’arma che pensa da sola? E cosa accade se questi strumenti cadono in mani sbagliate? La risposta, finora, è un misto di opacità e pragmatismo. I governi europei, soprattutto dopo il 2022, hanno aperto con discrezione le porte a questi sistemi, cercando di non alimentare troppo il dibattito pubblico. Ma il rischio che l’opinione pubblica arrivi in ritardo – come con la tecnologia dei social media – è altissimo.

E poi c’è l’altro volto della guerra algoritmica: la difesa passiva. L’intelligenza artificiale viene usata non solo per attaccare, ma per prevedere dove e quando ci sarà un attacco. Software come quelli di Helsing elaborano immagini satellitari, registrano variazioni nei pattern energetici, riconoscono segnali di concentrazione di truppe, anticipano i movimenti. Lo fanno meglio di qualsiasi analista umano. E lo fanno in una manciata di secondi. In Ucraina, questi strumenti hanno fatto la differenza nel respingere molte incursioni russe.

In fondo, l’intelligenza artificiale in guerra è solo una forma accelerata di quello che già accade nel mondo civile: automazione, analisi predittiva, interconnessione. Solo che qui, ogni errore costa vite. Ogni secondo guadagnato può valere una città salvata. E ogni decisione delegata a una macchina apre scenari che nessun trattato internazionale ha ancora codificato. Siamo di fronte a una biforcazione della storia militare europea. O si costruisce una sovranità tecnologica autonoma, anche nel campo della difesa, o si resta prigionieri dell’egemonia digitale americana e della sfida crescente cinese. In questo senso, le blatte-cyborg di Swarm sono più che un’immagine inquietante. Sono una metafora: la guerra del futuro si combatterà con strumenti che, fino a ieri, non potevamo nemmeno immaginare. E chi immagina prima, comanda.

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