I mercati europei tengono: perdite minime per Germania, Italia e Francia. L’Ue negozia, guadagna tempo e resta in gioco, mentre Wall Street teme una bolla protezionistica
C’è un test infallibile, meno teatrale dei talk show e meno incandescente delle dichiarazioni politiche, per valutare l’effetto reale di una misura economica: osservare come reagiscono i mercati. E alla notizia dell’accordo commerciale tra Stati Uniti ed Europa – che ha formalizzato dazi del 15 per cento su gran parte delle esportazioni europee – gli indici non sono affondati. Il dollaro sì, si è rafforzato. Il Nasdaq è salito. Lo S&P 500 ha toccato nuovi massimi. Il settore difesa americano ha brindato, quello europeo ha perso qualcosa. Ma nel complesso: niente panico, niente crolli. Piuttosto: aggiustamenti settoriali, un po’ di volatilità e un forte sospetto che la retorica di Trump sia più fragorosa della sostanza. Diciamolo chiaramente: i dazi di Trump sono una pessima notizia per l’idea di libero scambio, per l’unità dell’Occidente e per la stabilità delle regole multilaterali. Ma non sono una dichiarazione di guerra. E, almeno per ora, non sono nemmeno un trauma sistemico. I numeri lo dicono con sorprendente freddezza: secondo una prima simulazione del Kiel Institute, il danno per la Germania sarà dello 0,13 per cento del Pil annuo; per l’Italia appena dello 0,01; per la Francia dello 0,02. Il vero perdente, nel lungo periodo, potrebbe essere proprio l’America, con un potenziale -1,15 per cento di crescita cumulata per effetto complessivo della sua politica tariffaria.
Non è una resa, è un compromesso al ribasso. L’Unione europea ha concesso dazi sull’industria manifatturiera (auto, acciaio, beni intermedi), in cambio di aperture strategiche su altri fronti: l’esenzione reciproca nel settore aerospaziale, la neutralità tariffaria sui semiconduttori e le macchine per produrli, e un gigantesco piano di acquisto europeo di energia americana, per un valore stimato di 750 miliardi di dollari. Una mossa difensiva, certo, ma anche un tentativo di tenere aperti i canali commerciali e prendere tempo. E’ poco? Forse. Ma anche il Regno Unito, celebrato da alcuni come più abile, ha incassato lo stesso 10 per cento di dazio medio. La narrazione della “capitolazione” europea, pur emotivamente potente, rischia di distorcere la realtà. Lo dimostra anche l’andamento settoriale delle azioni: Airbus e Boeing, appena liberate da una lunga disputa tariffaria, volano. Asml, gigante europeo dei semiconduttori, sale in borsa. L’industria del lusso tiene, i colossi energetici americani festeggiano (su tutti Cheniere Energy). E mentre l’industria automobilistica tedesca si prepara a costi più alti, anche lì si parla più di “chiarezza” che di disastro.
Tutto questo non significa sottovalutare i rischi. Al contrario: significa analizzarli con lucidità. Se Trump dovesse colpire più duramente anche altri paesi (Canada, Messico, Cina), il clima economico potrebbe cambiare. Ma oggi, la lezione che ci danno i mercati è semplice e controintuitiva: non è l’Europa che trema, è Wall Street che si interroga sul rischio di una bolla alimentata dalla stessa politica americana che promette protezionismo e regala liquidità. Paradossale? Solo in apparenza. Sarebbe quindi un errore, per chi crede nel progetto europeo, adottare la narrazione dell’umiliazione permanente. Le immagini dal campo da golf scozzese fanno male all’orgoglio, ma non raccontano da sole la partita economica in corso. L’Europa non è impotente. Ha perso questa mano, forse. Ma i mercati – e i numeri – ci dicono che è ancora al tavolo, e che può giocare le prossime con più intelligenza. Purché non si convinca, per prima, di aver già perso.