Due israeliani si confrontano sull’editoriale dell’Economist

Uno è un ex diplomatico vicino ai centri liberal di Tel Aviv. L’altro è un colono della Cisgiordania e ufficiale in congedo. Entrambi vogliono vedere Israele sicuro, forte, riconosciuto. Ma amare Israele significa anche dissentire

Uzi: Hai letto l’Economist?

Nadav: Sì. E sono furioso. Tu no?

Uzi: Furioso no. Direi che finalmente qualcuno, fuori da Israele, ci parla con serietà e lucidità. Non da nemico, ma da amico vero. E dice una cosa semplice: questa guerra, così com’è, ci sta disonorando. Basta. Enough.

Nadav: Bello dire “enough” seduti a Londra. Ma noi, noi israeliani, sappiamo cosa significa fermarsi a metà. Lo abbiamo fatto troppe volte. Ogni volta che ci siamo ritirati, abbiamo ricevuto razzi. Ci siamo ritirati dal Libano, da Gaza, da Hebron. E ogni volta il vuoto è stato riempito da qualcosa di peggiore. Ora che abbiamo Hamas in ginocchio, dovremmo smettere?

Uzi: Io voglio la sicurezza di Israele quanto te. E proprio per questo ti dico: questa guerra non ha più senso militare. Lo dice anche l’Economist. Hamas è sconfitto sul piano strategico, ma noi non possiamo distruggere ogni tunnel o ogni combattente. Lo sappiamo. E allora cosa facciamo, restiamo lì mesi? Anni? Al prezzo di decine di migliaia di morti palestinesi, della condanna globale, e di un logoramento interno che sta spezzando la società israeliana?

Nadav: Ma cosa significa “non ha senso militare”? L’IDF ha il dovere di difendere i cittadini. Se lasciamo Hamas anche con un solo brandello di potere a Gaza, loro diranno di aver resistito. Di aver vinto. Torneranno. E noi ci troveremo di nuovo con ostaggi, razzi, attentati. Che alternativa abbiamo?

Uzi: L’alternativa è proprio quella che propone l’Economist: negoziare adesso, sfruttando la debolezza di Hamas. Costringerli, con Qatar e USA, a un cessate il fuoco serio. Usare quei 60 giorni iniziali non solo per fermare i combattimenti, ma per costruire un nuovo governo a Gaza, sostenuto dall’Autorità Palestinese e da partner arabi. Lo so, è difficile. Ma non è più difficile che occupare Gaza per dieci anni senza via d’uscita.

Nadav: Ma tu davvero credi che l’Autorità Palestinese abbia la forza, la credibilità, il sostegno per governare Gaza? Abu Mazen non controlla nemmeno Nablus! E i “partner arabi” sono buoni per le foto nei vertici internazionali, ma poi? Chi mette gli stivali sul terreno? Chi protegge i civili dai jihadisti?

Uzi: Senti Nadav, so che hai figli. Anch’io. E proprio perché abbiamo figli dobbiamo chiederci: stiamo davvero costruendo un futuro più sicuro per loro o solo allungando un ciclo di violenza? Gli ultimi due anni ci hanno mostrato che l’occupazione a tempo indefinito di Gaza è un disastro – per i soldati, per i civili palestinesi, per la nostra reputazione internazionale. E, ti dirò, anche per la nostra anima.

Nadav: Mi parli dell’anima? L’anima di Israele è sopravvissuta alla Shoah, alla guerra del Kippur, agli attentati. E adesso dovrebbe collassare perché il New York Times o l’Economist ci dice che sembriamo brutti in foto? Guarda che se oggi siamo ancora vivi è perché non ci siamo mai fidati dei buoni sentimenti europei.

Uzi: Non ti parlo dei sentimenti. Ti parlo di strategia. La guerra è uno strumento, non un fine. Quando non produce più vantaggi, si ferma. E oggi l’unico “vantaggio” che Netanyahu ottiene continuando a bombardare è non essere travolto politicamente dalla sua destra. Ma Israele non può essere ostaggio della politica interna. Non può essere guidato dalla paura di Itamar Ben-Gvir.

Nadav: E allora che facciamo, lasciamo che sia Hamas a dettare il ritmo? Fermiamoci e vedremo cosa succede? Così nel 2027 saremo da capo?

Uzi: No, non lasciamo loro il ritmo. Lo prendiamo noi. Lo dice l’Economist: due cose vanno fatte subito. Costringere Hamas alla resa e costruire, nel vuoto che si apre, qualcosa di nuovo, sostenuto da arabi e occidentali. Il tempo è adesso, quando Hamas è debole. Non tra sei mesi, con Gaza ancora più distrutta e Israele ancora più isolato.

Nadav: Parli come se avessimo tutto questo sostegno internazionale. Ma guarda cosa è successo con l’Aia, con la Spagna, con l’Irlanda. Vogliono riconoscere la Palestina mentre siamo ancora sotto attacco! Ti sembra il momento di fidarsi?

Uzi: No, non mi fido della diplomazia ipocrita. Ma mi fido di chi ci è sempre stato accanto, anche quando ci criticava. Gli Stati Uniti. E guarda che perfino loro, oggi, dicono che basta. La Casa Bianca è stanca. Biden lo ha detto chiaramente a giugno. Vuole la fine della guerra. Se lo ignoriamo, rischiamo di perdere l’unico vero alleato strategico che ci è rimasto.

Nadav: Allora mettiamola così: tu vuoi la fine della guerra perché temi per l’anima e la reputazione di Israele. Io voglio finirla solo quando sarà chiaro che non ci dovremo tornare. Solo quando Hamas sarà veramente annientato.

Uzi: Ma se per “annientato” intendi “nessun militante vivo”, non finirà mai. Hamas è un’idea, non solo un esercito. Il modo per annientarla è politico, non solo militare. E’ toglierle consenso, mostrare che Israele non vuole dominare Gaza, ma costruire con i palestinesi qualcosa di meglio. Questo è ciò che davvero la disarma.

Nadav: E se quel qualcosa “di meglio” non arriva? Se non c’è nessuno, tra i palestinesi, disposto a fare quel passo?

Uzi: Allora lo avremo almeno tentato. Avremo messo Hamas spalle al muro, mostrato al mondo chi è che vuole la pace e chi no. E forse, a quel punto, avremo più legittimità per difenderci anche con le armi. Ma adesso, Nadav, siamo noi quelli che sembrano incapaci di fermarsi. E questo non è Israele.



Non c’è pace senza sicurezza. Ma non c’è sicurezza senza strategia. Per molti israeliani – anche tra chi ama profondamente il Paese – l’Economist ha detto ad alta voce ciò che in troppi sussurrano da mesi: questa guerra, così com’è, non porta più nulla. Amare Israele significa anche saperlo dire. Anche a costo di discutere. Anche a costo di litigare. Perché “enough” non è resa. E’ lucidità.

Leave a comment

Your email address will not be published.