Un’umiliazione tattica con impatti limitati. La verità sui dazi

Le critiche all’Ue sulle tariffe al 15 per cento non sono solo ingenerose, ma sono anche economicamente infondate. Numeri da studiare

Un’amara umiliazione tattica, con un impatto economico tutto sommato limitato, ma con un significativo risultato istituzionale. Le critiche alla Commissione Europea, che ha dovuto piegare la testa davanti ai dazi predatori imposti dall’amministrazione Usa, sono non solo ingenerose, ma anche economicamente infondate. Vediamo perché, in base a tre motivazioni: il dazio medio ponderato aggiuntivo, tenuto conto delle numerose esenzioni, è stimabile in circa il 10,9 per cento e non svantaggia l’Europa rispetto agli altri grandi soggetti esportatori; il peso effettivo delle tariffe di Trump, finora, è stato per l’82 per cento a carico di importatori e consumatori Usa; gli effetti complessivi dell’erratica politica di Washington ne erodono la credibilità istituzionale agli occhi dei mercati e sul lungo termine, al netto delle fluttuazioni di oggi, indeboliscono il dollaro, contribuendo a contenere l’inflazione nell’eurozona. La politica commerciale aggressiva degli Usa, tuttavia, resta un atto unilaterale di potere che viola le regole del gioco definite entro il Wto e segnala un forte sbilanciamento di ruoli: l’Europa, costretta a negoziare sotto minaccia di tariffe ancor più punitive in una posizione di debolezza geopolitica ereditata da 80 anni di frammentazione nazionalistica, non deve sprecare l’occasione di imparare da questa crisi per ripensare il proprio ruolo storico in senso ancora più federale.



1. Quanto valgono i nuovi dazi


Per stimare l’impatto reale occorre guardare al dazio medio ponderato: sommando le aliquote (0 per cento per le categorie esentate, 15 per cento per la maggior parte delle altre voci, 50 per cento per acciaio e alluminio) e pesandole per il peso di ciascun prodotto sull’export Ue, si ottengono valori sintetici assai eloquenti. I calcoli presenti nel documento di riferimento mostrano che solo l’1 per cento delle spedizioni europee verso gli Stati Uniti (circa 5,7 mld $) rientra nella fascia massima del 50 per cento (metalli di base); circa il 70 per cento delle vendite rimanenti (quasi 391 mld $) subisce il 15 per cento, mentre circa il 30 per cento (175 mld $) sembra esserne esentato, per quanto è possibile dedurre dai comunicati ufficiali. Ne risulta un dazio medio attuale di 12,4 per cento, contro l’1,5 per cento pre-Trump: il differenziale netto è quindi stimabile nel 10,9 per cento per l’Ue nel suo insieme (11,0 per cento per l’Italia, leggermente penalizzata da un mix di esportazioni più esposto ai dazi, con tanti saluti alle locali cheer leader trumpiane). L’analisi merceologica evidenzia come le voci più colpite coincidano con i comparti di forza industriale europea che gli Usa vorrebbero internalizzare: veicoli e componentistica, macchinari generali, meccanica specializzata, agro-alimentare a maggior valore aggiunto, sistema moda-lusso. Le esenzioni salvano invece le filiere in cui la cooperazione transatlantica resta indispensabile – aeronautica civile, farmaci generici, attrezzature per chip – o dove l’interruzione delle forniture nuocerebbe anche all’industria americana. Questa differenziazione conferma la natura selettiva della misura: ridurre la concorrenza europea dove serve all’industria statunitense e, al contempo, evitare colli di bottiglia auto-indotti in segmenti sensibili. A completare il quadro serve una valutazione in termini comparati: i valori assoluti dei dazi Usa rendono le merci europee più competitive rispetto a quelle cinesi e perfino rispetto a quelle messicane.



2. Chi paga davvero il conto


L’aspetto più sorprendente – ma coerente con l’evidenza empirica dei dazi Sino-Usa 2018-24 – è che, in base alle stime di Macrobond/Psc Economics sui dati dell’ultimo trimestre, il balzello si configura di fatto come una tassa interna americana: oltre l’82 per cento del sovrapprezzo viene trasferito sui soggetti a valle della catena domestica (il 53 per cento circa agli importatori e distributori, il 29 per cento ai consumatori), mentre solo il 18 per cento circa ricade direttamente sui produttori europei sotto forma di riduzioni di prezzo o compressione dei margini. I motivi sono noti: in molti settori la controparte europea detiene vantaggi di qualità o di specializzazione tali da rendere difficoltosa la sostituzione; gli importatori statunitensi, pur di non interrompere la catena di fornitura, assorbono gran parte della nuova tassazione e la ribaltano – per quanto possibile – sui listini finali. Il consumatore americano, dunque, sta già pagando e probabilmente continuerà a pagare una parte significativa dei dazi sotto forma di prezzi più alti, con implicazioni pro-inflattive e minori margini di spesa reale. La Casa Bianca giustifica la stretta doganale come uno stimolo al reshoring: le tariffe dovrebbero indurre imprese statunitensi a riportare in patria la produzione sostituendo la merce importata. Ma la fattibilità è controversa. Un rientro massiccio di manifattura negli Usa si scontra con quattro ordini di ostacoli:

Vincoli geopolitico-tecnologici: componenti e macchinari europei sono integrati in filiere globali di cui gli Usa non possono fare a meno nel breve periodo. Vincoli regolatori: costruire nuovi impianti negli Stati Uniti implica permessi complessi e tempi lunghi. Vincoli produttivi: la replica di know-how e qualità europei richiede anni di investimenti e apprendimento. Vincoli di capitale umano: l’industria statunitense soffre carenze croniche di manodopera qualificata. Per questi motivi, anche se alcuni importatori cercheranno fornitori alternativi in Paesi terzi, la sostituzione su larga scala appare improbabile a breve. Nel frattempo, il dazio si comporta da tributo che riduce il potere d’acquisto interno, con benefici selettivi per quei produttori americani che possono “alzare il prezzo” grazie alla protezione tariffaria.


Un caso emblematico è l’acciaio: le tariffe del 25 per cento introdotte nel 2018 non hanno rilanciato l’occupazione siderurgica Usa, ma hanno permesso ai produttori nazionali di incrementare i listini, erodendo i margini delle industrie a valle. La nuova aliquota del 50 per cento su acciaio e alluminio Ue rischia di replicare il fenomeno, aggravando i costi di input in settori come edilizia, beni di consumo durevoli e automotive.



3. Gli effetti sul capitale istituzionale di Usa e Ue


Sul piano giuridico la misura viola apertamente gli impegni assunti dagli Usa in sede Wto: è un’azione che infrange il principio della nazione più favorita e travalica le bound tariffs concordate. Se in teoria Bruxelles potrebbe avviare un contenzioso a Ginevra, nella pratica l’organo d’appello del Wto è paralizzato da anni proprio a causa del veto americano sulla nomina dei giudici: un ulteriore paradosso che accresce l’incertezza del quadro multilaterale. Politicamente l’episodio certifica una realtà: l’asimmetria di potere tra la prima potenza militare del pianeta e un’Europa priva di autonomia strategica. Tuttavia, la reazione della Ue è stata tutto sommato compatta: istituzioni comunitarie e governi nazionali hanno alla fine difeso una linea comune, smentendo le spinte sovraniste che avrebbero ceduto a negoziati bilaterali separati. Così facendo, Bruxelles ha salvaguardato la propria credibilità come attore che rispetta la Rule of Law commerciale, mentre gli Stati Uniti erodono il proprio capitale reputazionale agli occhi dei mercati internazionali, già allarmati da una fase di forte volatilità. Se i dazi incidono in misura diretta ancora contenuta sui margini degli esportatori Ue, i veri costi derivano dal clima di incertezza che scoraggia gli investimenti globali. L’effetto potrebbe diluire parte dei circa 10 basis points di inflazione “in meno” che l’Europa sta ottenendo dal recente indebolimento del dollaro e dalle nuove clausole “zero-for-zero” sui prodotti strategici concordate da Ursula Von der Layen, che riducono alcuni costi di importazione. Al netto della turbolenza, l’episodio offre però all’Europa l’occasione di accelerare verso una autonomia strategica aperta. Ciò significa investire in: capacità produttive critiche (batterie, semiconduttori, materie prime rare); difesa comune, per ridurre la dipendenza da fornitori extra-Ue in ambito militare; accordi di libero scambio con aree ad alta crescita (Mercosur, India, Asean) per compensare l’eventuale contrazione di quote sul mercato Usa; politiche industriali che favoriscano innovazione e competitività piuttosto che sussidi difensivi o eccessi regolatori. In quest’ottica, l’Europa può trasformare una mezza umiliazione tattica in un catalizzatore di integrazione: consolidare il mercato unico, rendere più attrattivi i capitali verso progetti di frontiera, potenziare la formazione tecnica per colmare gap di competenze e sostenere le transizioni gemelle – digitale e green.



Il nuovo pacchetto tariffario non è, come vorrebbe la retorica ufficiale di Washington, un incentivo virtuoso al riequilibrio commerciale, bensì l’ennesimo episodio di unilateralismo protezionista che scarica sul consumatore americano la gran parte del suo onere e mina la credibilità globale degli Stati Uniti. Per l’Europa, la scommessa sta nel non cadere nella tentazione di un protezionismo simmetrico. Tenere fermo il timone sul diritto internazionale, mentre si colmano le fragilità strategiche, può trasformare la crisi in volano di una nuova sovranità europea: meno dipendente da estorsioni tariffarie, più capace di governare la competizione globale con gli strumenti del mercato e dell’innovazione. In questo senso, i dazi del 2025 rappresentano al contempo un avvertimento e un’opportunità: un avvertimento sui limiti del hard power americano in economia, un’opportunità per l’Unione di dimostrare che l’integrazione resta il miglior antidoto alle crisi esterne e interne.

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