La tregua tra Thailandia e Cambogia

L’accordo è stato siglato a Putrajaya, capitale della federazione malaysiana. Trump se ne prende il merito dopo aver minacciato di sospendere i negoziati sui dazi avviati con Bangkok e Phnom Penh, ma alla firma c’è anche la Cina. Traballa tutto

Il 28 luglio è il compleanno del re di Thailandia Maha Vajiralongkorn: non è da escludere che la ricorrenza abbia avuto un certo valore nel cessate il fuoco concordato lo stesso giorno tra il primo ministro cambogiano Hun Manet e il primo ministro ad interim thailandese Phumtham Wechayachai. L’accordo è stato siglato a Putrajaya (capitale della federazione malaysiana) alla presenza del premier malese Anwar Ibrahim e degli inviati di Washinton e Pechino. Le ostilità sono cessate a mezzanotte, ma lungo la linea del fronte che ormai si dispiega dalle montagne coperte di foresta della catena del Dangrek sino alle acque del Golfo di Thailandia, sembra inevitabile che gli scontri proseguano ancora. Nel frattempo, dal 24 luglio, inizio di questa “strana guerra”, sono morte 34 persone tra civile e militari (compresi alcuni bambini), sono state costrette ad abbandonare le case quasi duecentomila persone, sono stati utilizzati carri armati, caccia, missili, artiglieria pesante. Il comando thai ha addirittura autorizzato l’uso di munizioni cluster. Gli scontri sono stati provocati dall’interminabile disputa di frontiera tra i due paesi. Ma le vere ragioni sono molto più interne. Vanno ricercate nella volontà di consolidare il proprio potere da parte delle classi dominanti e dei militari di entrambi i paesi, che hanno strumentalizzato un esasperato nazionalismo anche per offuscare una crescente crisi economica.

Ad attribuirsi il merito della tregua è Donald Trump, che aveva minacciato di sospendere i negoziati sui dazi avviati con Bangkok e Phnom Penh. La presenza cinese alla firma dimostra però che Pechino è il convitato di pietra. Un certo merito va riconosciuto alla Malaysia perché è riuscita a testimoniare la capacità di reazione da parte dell’Associazione delle nazioni del sud est asiatico. Il momento in cui i fedeli buddisti possano tornare a pregare nei templi contestati, tuttavia, è ancora lontano: bisogna percorrere sentieri minati nelle foreste e superare le insidie nascoste nei palazzi di Bangkok e Phnom Penh.

Leave a comment

Your email address will not be published.