No, la philofiction no

Un genere da supermercato per introdurre oscuri accademici nel circoletto letterario. L’applicazione delle tecniche narrative tipiche della finzione a una materia, la filosofia, altrimenti ostica, con l’obiettivo di renderla accessibile

Per tanti generi letterari morti e sepolti oppure al lumicino (e chi vuol visitare questo curioso cimitero sfogli il Dictionnaire raisonné de la caducité des genres littéraires, Droz, 2013), qualche nuovo genere letterario viene però alla luce. Uno, finora non rilevato, ma in linea coi tempi menci, è quello della philofiction. Come nella docufiction (alla Saviano per intenderci), la philofiction applica tecniche narrative tipiche della finzione a una materia – la filosofia – altrimenti ostica iniziatica rivoltante con l’obiettivo di renderla invece appetitosa coinvolgente accessibile. Cosa ottima questa per gli editori, i quali vedono così crescere esponenzialmente il loro bacino di lettori e lettrici in generi fino ieri “a perdere”; cosa ottima per gli autori – perlopiù accademici che nessuno fuori dalle aule si era filato mai – che vengono così sottratti al lavoro astruso e oscuro delle dispense universitarie in forma di libro per essere offerti alle platee delle presentazioni librarie o dei festival culturali.

Per la verità non tutti i professori fungono alla bisogna, dato che il fiction philosopher ha un suo identikit ben particolare: anzitutto un curricolo da primo della classe – con titoli, cattedre, insegnamenti in università italiote e straniere meglio di un globetrotter – unito possibilmente a un aspetto gradevole (o almeno non respingente) che includa anche un bel modo di porgere e di perorare ossia in primis deve possedere fotogenia, senso scenico e della dizione. L’arte narrativa invece è secondaria, visto che già l’intelligenza artificiale o gli editor delle case editrici drammatizzano facilmente qualsiasi contenuto venga loro sottoposto, fin i più gnucchi o aridi. Un esempio forse calzante è il recente Il demone della nostalgia. L’invenzione della Grecia da Nietzsche a Arendt di Mauro Bonazzi edito dall’Einaudi mondadoriana (qui per ovvie ragioni occorre specificare): “Il libro procede isolando alcuni momenti chiave di questi dibattiti […] scene che concentrano la luce dei riflettori su alcuni passaggi e svolte decisivi”. Dall’introduzione si apprende che il libro nasce “dalle conversazioni” con l’editore e dal primo capitolo che l’autore entra nella testa di Nietzsche per prestargli parole e pensieri con frasi di questo tipo: “Il giovane professore di Basilea l’aveva messo in conto […] perplessità e sconcerto non erano mancati”.


Insomma nella philofiction si proietta, con esiti involontariamente ma stilisticamente tragicomici, l’arte dello storytelling entro una materia che non lo ammette o esigerebbe semmai un’arte sopraffina (Manzoni, non un ordinario di checchessia, può animare il cardinal Borromeo), insomma un’arte sovrana che a professori ministerialmente titolati – proprio perché ministerialmente titolati – per giustizia di Parnaso non è concessa al fine di preservare le orecchie dei buoni lettori. Gli italiani comunque hanno fatto scuola in questo genere ora gradito pure agli stranieri. Cominciò infatti Luciano De Crescenzo che mise la cammesella alla storia della filosofia greca; continuò Umberto Galimberti, il quale spiegava in pillole il mistero della vita alle lettrici dei magazine rosa dei giornali; trovò infine la consacrazione con Stefano Zecchi, tombeur de femmes televisivo, che dopo aver curato libri di Goethe e Spengler capì che forse avrebbe meglio sbarcato il lunario con romanzi quali Estasi, Sensualità etc. roba scritta da far invidia a Guido da Verona.



Questa nostra “letteratura filosofica” venduta fin nei supermercati accanto a TV sorrisi e canzoni purtroppo viene anche tradotta all’estero: segno di decadenza, non solo italiana, dato che i primi a esser buggerati sono proprio quegli stranieri che la traducono, senza coglierne l’intrinseca pochezza. In verità la lingua tedesca per questo nuovo genere (esiziale, perché, drammatizzando la filosofia, in realtà la sdrammatizza) ha un termine perfetto: friseurliteratur “letteratura da parrucchieri” ovvero quel genere di pubblicazioni che si leggono, o meglio sfogliano, nell’attesa che il casco asciughi i bigodini, giusto per ammazzar la noia.

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