Autodazi che? Cosa non torna su un numero reso celebre da Draghi

Contro il mantra delle barriere interne all’Unione europea pari al 44 per cento. Sono i golden power il vero ostacolo a un mercato Ue più integrato

Non c’è discussione sui dazi che, a un certo punto, non tiri in ballo il tema delle barriere interne all’Europa (domenica, a quanto pare, Ursula von der Leyen e Donald Trump si incontreranno in Scozia). Invece di preoccuparsi dei dazi sulle sue esportazioni, l’Europa dovrebbe piuttosto ridurre gli ostacoli che tuttora persistono agli scambi tra i paesi membri dell’Unione, che sono pari al 44 per cento (escludendo i servizi), superiori a quelli interni agli Stati Uniti (15 per cento) e ben più elevati dei dazi minacciati dall’Amministrazione Trump. Il ragionamento non farebbe una piega, se non fosse che il numero preso a riferimento – ossia il 44 per cento di barriere interne – appare campato in aria.



Il numero viene citato per la prima volta nell’ottobre 2024, in un rapporto del Fondo monetario internazionale sull’economia europea, senza alcun riferimento bibliografico. Riceve poi l’onore della stampa in un articolo di Mario Draghi sul Financial times (“Forget the US – Europe has successfully put tariffs on itself”) uscito il 14 febbraio scorso, il giorno stesso in cui il Fmi decide di pubblicare il documento di ricerca (n.25/40) che spiega come è stato calcolato quel 44 per cento. Una spiegazione in realtà poco esaustiva, che non viene sottoposta ad alcun esame critico. Ciononostante, la tesi secondo cui “le barriere interne all’Europa equivalgono a dei dazi del 44 per cento” diventa un mantra: più viene ripetuta e più sembra vera, senza che nessuno si ponga alcun dubbio al riguardo. Eppure, qualche dubbio dovrebbe emergere, dato che quel 44 per cento è in contrasto con la letteratura esistente. In un articolo pubblicato nella primavera del 2021 sul Journal of Economic Perspectives della American Economic Association, Keith Head e Thierry Mayer concludevano che “sebbene dal punto di vista istituzionale l’Unione Europea non sia sul punto di diventare gli ‘Stati Uniti d’Europa’, su molti fronti l’integrazione economica dell’Ue ora eguaglia o addirittura supera quella dei 50 stati americani. Questo risultato è notevole. Gli Stati Uniti sono uno stato federale da più di 230 anni, con un divieto costituzionale contro le barriere al commercio interno. Se si misura l’integrazione come convergenza dei livelli dei prezzi, l’Ue15 è ormai alquanto simile agli stati americani”. Com’è possibile giustificare il nuovo risultato ottenuto dalla ricerca del Fmi? In effetti, non è un compito facile, anche perché il documento del febbraio scorso non fornisce dettagli riguardo alla metodologia utilizzata, i dati di base e le stime effettuate.



Vengono pubblicati solo la stima della media delle barriere bilaterali tra i 28 paesi europei – l’ormai noto 44 per cento – e la stima delle barriere esistenti in 15 settori merceologici, che vanno dal 10 per cento per i prodotti chimici a oltre il 140 per cento per i prodotti agricoli. Un primo aspetto critico del lavoro del Fmi è quello di considerare solo l’insieme dei 28 paesi, includendo anche il Regno Unito, senza alcun sottogruppo, in particolare per differenziare tra i paesi che fanno parte del mercato interno da più tempo, come i sei paesi fondatori o i 15 che ne facevano parte già dalla metà degli anni Novanta, rispetto a quelli entrati più di recente. Il motivo è che ci vuole un certo periodo di tempo prima che l’entrata nel mercato europeo si concretizzi in una effettiva riduzione degli ostacoli al commercio bilaterale. E’ del tutto normale che per i paesi entrati nell’Unione più di recente, come la Polonia, la Romania o la Croazia, le divergenze siano maggiori. Questo aspetto è peraltro riconosciuto nel documento del Fmi. Non si capisce dunque perché si sia voluto dare tanto rilievo al un dato medio, che in fin dei conti è poco significativo.



Un altro fattore limitante dell’analisi del Fondo riguarda le ipotesi sottostanti alla metodologia di calcolo, che per stessa ammissione dei ricercatori sono molto restrittive. Colpisce in particolare il fatto che le differenze nei flussi commerciali tra i vari paesi dell’Unione derivanti dalle “preferenze nazionali” (il cosiddetto home bias) vengono considerate come barriere al commercio. Ad esempio, il fatto che in Italia si beva più vino italiano che francese, e viceversa, e dunque che l’import-export di vino tra i due paesi sia molto contenuto rispetto al consumo complessivo, viene considerato alla stregua di una barriera tariffaria (e non la risultante di una scelta enologicamente razionale), che viene tradotta in un dazio. Non è un caso che la tariffaria intra-Ue nel settore alimentare viene stimata essere pari al 70 per cento. Nel settore tessile la tariffa interna è addirittura stimata al 120 per cento. Non viene tenuto in considerazione che, diversamente dai cittadini americani, quelli europei hanno una preferenza più marcata per i prodotti locali (anche se con il marchio Eu) per motivi legati a fattori culturali, ambientali e meteorologici, piuttosto che all’esistenza di barriere commerciali. Questo fattore è probabilmente più marcato nei paesi di nuova accessione.



Peraltro, il documento del Fmi non nasconde che la sua analisi sia parziale e che i risultati debbano essere presi con cautela. Il documento riconosce anche che le stime sono da considerare come una parte alta della forchetta (upper bound) di valori statisticamente plausibili. Peccato che il documento non fornisca informazioni per capire quanto ampia sia la forchetta e quanto realistici siano i risultati forniti.


In realtà, il problema non riguarda tanto il documento di ricerca pubblicato dal Fmi, che come qualsiasi analisi empirica va valutata con attenzione e sottoposta a confronto incrociato, ma risiede piuttosto nel rilievo dato al numero specifico del 44 per cento di barriere interne e nella strumentalizzazione politica che ne è seguita. Anche perché il messaggio di politica economica contenuto nella più ampia ricerca del Fmi è di natura ben diversa. Ossia, che l’ostacolo principale alla realizzazione di un mercato europeo più integrato è rappresentato soprattutto dalle misure restrittive che gli stati membri adottano nei confronti delle aziende (come ad esempio i golden power) che impediscono a quelle più sane di crescere e di competere nel mercato. Questo dovrebbe essere il vero messaggio da mettere in rilievo.

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