Duello con il capo delle toghe di sinistra. Parla Silvia Albano, presidente di Md

“Il governo? Sta mettendo in pratica un progetto che scardina gli architravi della democrazia costituzionale. Referendum sulla giustizia? Parteciperemo alla campagna referendaria”. Parla Silvia Albano, magistrato, presidente di Md

Abbiamo fatto una piccola pazzia e abbiamo tentato di sfidare a duello uno dei magistrati più conosciuti d’Italia, che questo giornale, nei mesi passati, ha criticato con forza. Abbiamo tentato questa piccola pazzia per provare a incalzare un magistrato che ha fatto notizia per aver sfidato il governo, con un fatto concreto, e che ha messo in campo la propria azione, con orgoglio, per indicare al potere legislativo e al potere esecutivo qual è, su un ambito preciso, il confine che la politica non deve superare. Il magistrato in questione è piuttosto famoso. Si chiama Silvia Albano, è nata a Padova, è un magistrato ordinario, lavora al tribunale di Roma, nella sezione immigrazione, a novembre ha fatto scalpore per aver contribuito a scardinare il famoso “modello albanese”, promosso dal governo, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti all’interno del centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjadër.

In quei giorni, in molti, compreso questo giornale, si sono chiesti se quell’azione non sia stata un’esondazione da parte della magistratura, un tentativo di voler avere in modo discrezionale l’ultima parola su un tema su cui forse l’ultima parola spetterebbe a chi è stato eletto per legiferare, e dopo qualche mese di dialogo e di battibecco la dottoressa Albano ha accettato di confrontarsi con noi, ingaggiando un duello tosto ma costruttivo e stimolante. La dottoressa Albano non è solo il magistrato divenuto famoso per il caso Albania ma è un magistrato importante anche per il suo ruolo all’interno di una delle correnti della magistratura più famose del mondo: Md, Magistratura democratica, storica corrente progressista. Albano sa cosa pensa questo giornale delle correnti della magistratura, più o meno tutto il male possibile, ma con sportività ha accettato di confrontarsi anche su questo punto. E anche su molti altri. Su alcuni punti, la presidente di Md ci ha sorpreso, offrendo spunti di garantismo tutt’altro che scontati, anche su alcuni fatti di cronaca che hanno monopolizzato l’attenzione dei media negli ultimi giorni (Milano e non solo). Su altri punti, invece, la presidente di Md ha scelto di non sorprendere, mettendo in campo una visione del ruolo che deve avere oggi la magistratura tosta, dirompente, che farà discutere, specie per i giudizi sul governo Meloni.



La nostra conversazione con Albano, per rompere il ghiaccio, inizia subito dalla sostanza, e da una domanda volutamente provocatoria. Dottoressa, ma ha davvero torto la politica quando sostiene che in Italia esiste una parte della magistratura che abbia una sua agenda politica, e che quella magistratura a volte tenda a mostrare le proprie convinzioni all’interno delle proprie indagini? “Sinceramente – dice Albano – non credo proprio che ci sia una parte della magistratura che abbia una propria agenda politica, forse bisognerebbe togliersi le lenti del preconcetto quando si guarda all’attività giudiziaria. Quando nell’attività giudiziaria si toccano temi sensibili, quali la politica o i migranti si tende a giudicare non i fatti o il contenuto dei provvedimenti, ma a indagare su come la pensa il giudice o il pm, se è di sinistra o di destra. Salvo abbia assolto Salvini, allora nessuno discetta sull’orientamento politico del collegio giudicante. La trovo una pratica pericolosa e gratuitamente delegittimante, fermo restando che, invece, la critica al contenuto dei provvedimenti è sempre legittima ed è positiva: aiuta la giurisdizione e la giurisprudenza a evolversi. Lo facciamo da sempre anche all’interno della magistratura, basta leggere la nostra rivista, Questione Giustizia”.



Lei, riprendiamo noi, è una garantista, lo dice spesso, lo rivendica. Ma da garantisti possiamo convenire sul fatto che un magistrato che usa gli ingranaggi della giustizia per alimentare il processo mediatico è un magistrato che non sta facendo bene il proprio lavoro? Le offriamo due passaggi di un libro di Bruti Liberati, ex capo della procura di Milano. Primo: “Quando il pubblico ministero, invece di cercare i reati e le prove, si preoccupa di inseguire i mali della società, le devianze, i comportamenti eticamente riprovevoli, si rischia di travalicare il confine tra l’accertamento giurisdizionale e la missione morale, con l’effetto perverso di trasformare ogni inchiesta in un processo di costume”. E ancora: “La spettacolarizzazione dell’azione penale, alimentata da dichiarazioni enfatiche e da narrazioni suggestive, contribuisce a spostare l’attenzione dall’illecito accertato ai presunti disvalori, facendo perdere di vista la necessità della prova e la distinzione tra responsabilità penale e giudizi etici”. E’ d’accordo con lui? “Sono assolutamente d’accordo con lui, rilevo che non sempre questa critica viene avanzata a ragione e sulla base di dati di fatto, spesso resta molto generica”. Ma quando Silvia Albano legge troppi aggettivi e troppi avverbi in un’ordinanza, non pensa anche che ci sia puzza di bruciato? Ogni riferimento a fatti accaduti a Milano non è puramente casuale.

“Credo sia importante mantenere un linguaggio sobrio nei provvedimenti, ma non esageratamente tecnico. Un linguaggio comprensibile non solo dal destinatario del provvedimento, ma da chiunque si trovi a leggerlo”. La dottoressa Albano ha mostrato grande diffidenza nei confronti della riforma della magistratura (eufemismo). Eppure il governo, facciamo notare noi, in fondo non ha fatto altro che essere coerente con una promessa elettorale: separare le carriere e combattere il potere delle correnti nella magistratura. Se gli elettori sono arrivati a chiedere una svolta di questo tipo, non sarebbe forse il caso di pensare che difendere lo status quo non sia davvero il modo migliore di difendere l’indipendenza della magistratura? “Fermo restando che venire eletti e avere la maggioranza non significa poter disporre di un potere illimitato (si tratta di un fondamento dello stato costituzionale di diritto sancito dall’art 1 della Costituzione), ma di un potere da esercitarsi nei limiti sanciti dalle fonti sovraordinate dell’ordinamento, che costituiscono un limite anche per il legislatore, la separazione delle carriere può voler dire tante cose e non necessariamente essere tradotta nel testo di riforma costituzionale approvato. Né credo che chi ha votato potesse avere contezza delle possibili alternative sul piano tecnico per raggiungere questo obiettivo. Eventualmente realizzabile, come affermato dalla stessa Corte costituzionale e da esimi costituzionalisti, anche con legge ordinaria. Quindi parliamo di questa riforma, del testo approvato e che verrà sottoposto a referendum. Il cuore della riforma non riguarda, infatti, la separazione delle carriere, il vero obiettivo – come autorevolmente affermato dal prof. Roberto Romboli – è invece quello di modificare alla radice la natura e il ruolo finora svolto dal Csm, attorno al quale e grazie al quale si è realizzata, dopo il 1958, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nel nostro paese. Non dimentichiamo, poi, che se la riforma passerà al vaglio del referendum bisognerà riscrivere tutte le norme sull’ordinamento giudiziario attraverso le quali i pericoli che denunciamo potranno essere ulteriormente aggravati”.



Separare le carriere, facciamo notare alla dottoressa Albano, non è solo un tema di carattere giuridico. E’ anche un tema di carattere culturale. La terzietà non è solo un fatto, è una percezione: se il giudice e il pm si formano insieme, si scambiano ruoli, condividono lo stesso Csm, come può l’imputato sentirsi davvero giudicato da un arbitro imparziale? “Come affermato da un avvocato di lungo corso come il prof. Franco Coppi, non credo proprio che il tema sia questo, che ci sia il timore di un giudice non imparziale perché appartiene allo stesso ordine giudiziario cui appartiene il pm. Il cittadino dovrebbe allora temere a maggior ragione che non lo sia il giudice di appello o di Cassazione, visto che gli si chiede di riformare un provvedimento redatto da un collega ancora più vicino del pm. Il timore è poi smentito dai fatti, il 40 per cento di assoluzioni, in casi anche molto sensibili e rilevanti per la credibilità dell’azione della procura, sta lì a dimostrare il contrario. Il tema è allora proprio il sistema che vogliamo. I nostri costituenti hanno disegnato un sistema con un pm indipendente appartenente all’ordine giudiziario, la riforma del processo penale del 1989 non ha previsto un sistema accusatorio puro, come nei sistemi anglosassoni dove il pm è l’avvocato della Polizia, deputato a sostenere sempre e comunque l’accusa. Il nostro sistema, a mio parere, tutela i diritti dell’indagato, che è la parte debole, soprattutto nella fase delle indagini preliminari. In quella fase non potrà mai esserci una parità delle parti: il pm dispone della Polizia giudiziaria, perquisizioni, sequestri, ha un grande potere che la parte privata non ha né potrà avere, per questo è importante che il pm resti un organo di garanzia anche dei diritti dell’indagato, che il suo compito istituzionale sia la ricerca della verità essendo obbligato a raccogliere prove anche a favore dell’indagato. Obbligato a verificare la notizia di reato acquisita dalla Polizia potendo chiedere l’archiviazione all’esito delle indagini. Allontanare il pm dalla giurisdizione e dalla sua cultura significa avvicinarlo alla Polizia e fare un danno ai cittadini. Vanno combattute le distorsioni, che sicuramente ci sono state. Fare il pm per tutta la vita, come ora accade perché la separazione delle funzioni c’è di fatto da tempo, penso che non aiuti, ma aumenti il rischio di appiattimento del pm sulle tesi della Polizia, con la quale inevitabilmente lavora fianco a fianco”.

Proviamo a fare un passo in avanti, con Albano, e capire fino a che punto una corrente della magistratura può muoversi nel portare avanti le proprie idee, anche arrivando a un conflitto politico con il governo di turno. E dunque chiediamo: se la riforma passerà anche in seconda lettura e vi sarà un referendum, lei considererebbe un dovere civico partecipare alla campagna referendaria per suggerire di votare contro la riforma, per provare a fermarla, o sarebbe improprio? Albano risponde con onestà, con decisione, e spiegando perché, dal suo punto di vista, entrare nell’agone del dibattito pubblico non è un problema per un magistrato: è un diritto. “Certo – dice Albano – considero un dovere civico dei magistrati, che meglio di altri hanno gli strumenti tecnici per rappresentare ciò che la riforma comporterà per i diritti dei cittadini, partecipare al dibattito pubblico e alla campagna referendaria”. Tempo fa Albano ha detto che i magistrati in tasca non hanno il libretto di Mao né il Capitale di Marx, ma solo la Costituzione. Bella frase. Ma questa frase ci spinge a provocarla: se davvero i magistrati amano così tanto la Costituzione, possiamo dire dunque che ogni magistrato che non fa tutto il necessario per rispettare l’articolo 27 della Costituzione – l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva – e l’articolo 15 della Costituzione, nel passaggio in cui stabilisce quanto sia miserabile spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento (la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire non in modo sistematico ma solo in seguito a un atto motivato dell’autorità giudiziaria), andrebbe ripreso e sanzionato con forza? Albano risponde, ma dribblando un po’ la domanda. “Esistono per casi del genere fattispecie tipiche di illecito disciplinare previste dal decreto legislativo n. 109 del 2006. Ricordo che l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati spetta al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di cassazione”.

Garantismo, si diceva. Quando vi è una fuga di notizie da una procura lei vede, da parte degli organi inquirenti, sempre un grande desiderio di verificare, attraverso un’indagine, cosa è successo? A Milano, per capirci, il sindaco Sala ha saputo dell’indagine a suo carico dai giornali. Vi è stata una fuga di notizie. Non risulta che la procura abbia aperto un’indagine. “Non capisco bene la domanda. Comunque, quando vi sono fughe di notizie su indagini in corso bisognerebbe verificare da dove effettivamente provengano, non sempre dalle procure direi, anche in questo caso è prevista la responsabilità disciplinare del magistrato responsabile”. La conversazione con la dottoressa Albano inizia amichevolmente a scaldarsi e cogliamo l’attimo per entrare a gamba tesa in un altro ambito: come si definisce un limite, nella magistratura, tra il diritto a esprimere opinioni politiche e la trasformazione delle proprie opinioni politiche in un motore della magistratura? Mesi fa, un collega di Silvia Albano, Nello Rossi, già presidente di Magistratura democratica, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati, spiegò che il ruolo del magistrato oggi deve intendersi in prima linea sulla base di questa convinzione. In moltissimi campi della vita sociale ed economica – ha scritto Rossi – “è il giudiziario a intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica”. E per poter offrire, da magistrati, “un ruolo di garanzia dei diritti e della dignità delle persone e delle molte minoranze che popolano le moderne società” l’ex capo dell’Anm aveva individuato una piattaforma precisa. “In società in cui ciascun individuo può ritrovarsi a far parte di una delle molte minoranze che compongano la collettività è fortissima l’esigenza di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone”. Un nuovo fronte di resistenza della magistratura. Chiediamo ad Albano: si tratta di una linea corretta o troppo interventista?



“‘Una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone’ riporto testualmente. In che senso interventista? Mi pare proprio il ruolo che la magistratura è chiamata a svolgere sulla base della nostra Costituzione. In un contesto in cui l’universalismo dei diritti è ancora vigente (almeno nell’ordinamento giuridico) la magistratura assolve al ruolo di garanzia e tutela dei diritti di ogni persona, qualsiasi sia il suo status. Sono principalmente le minoranze ad avere bisogno di una magistratura indipendente dal potere, ma sicuramente non solo loro. I diritti inviolabili che integrano la dignità della persona umana vanno sempre difesi e tutelati”. Con le sue sentenze, la dottoressa Albano ha avuto un ruolo importante nell’andare a illuminare quelli che ha ritenuto essere atti illegittimi fatti dal governo sul tema dei paesi sicuri e sul tema dei rimpatri. Ma rispetto a quei temi, per quanto ci riguarda, una domanda è d’obbligo: ma la politica ha ancora il diritto di considerare irregolare un migrante che arriva in Italia, senza averne il permesso, senza avere il diritto di chiedere asilo, oppure chiunque arriva in Italia deve essere considerato automaticamente regolare per il semplice fatto che l’autorità giudiziaria considera in modo discrezionale non sicuri paesi definiti invece sicuri dal governo?

“La definizione di paese sicuro è contenuta nella direttiva Ue, recepita dal decreto legislativo n. 25/2008. Per definire un paese sicuro devono esistere i presupposti previsti dalla legge, il potere politico è competente a stilare l’elenco, ma quando stila quell’elenco deve rispettare la legge e il diritto dell’Unione che prevale anche sulla legge interna. Il giudice ha il dovere di verificare la legittimità della designazione. Lo hanno affermato con grande chiarezza la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte di cassazione. Quindi direi che le chiacchiere stanno a zero: quando il giudice effettua questa verifica fa semplicemente il proprio lavoro. La nostra Costituzione, le norme Ue e la Convenzione di Ginevra stabiliscono che nessuno può esser respinto senza dargli la possibilità di chiedere asilo. E’ un diritto fondamentale, che la Costituzione inserisce nella prima parte (art. 10 comma 3), quella che non è soggetta a revisione costituzionale perché sancisce diritti inalienabili. Mi rendo conto che può cozzare con alcune scelte politiche, ma, ripeto, il potere della maggioranza è limitato dal diritto, altrimenti non saremmo più in democrazia. Purtroppo alla magistratura spetta il compito di farlo rispettare, anche contro il volere della maggioranza politica di turno. A garanzia dei diritti di tutti”. Il professor Flick, giurista, uomo di sinistra, ex presidente della Corte, giorni fa ha messo, sul nostro giornale, a tema una questione che per molti magistrati è un tabù: la presenza di una magistratura che non si limita a occuparsi di reati ma che sceglie di occuparsi di fenomeni, facendo dunque prevalere nella sua azione un obiettivo non più legato al solo rispetto del codice penale e delle sue garanzie in tema di legge, reato, responsabilità personale e pena, ma legato a un pericoloso rispetto del codice etico. Secondo Flick, poi, l’eccesso nell’uso delle misure di prevenzione, come l’amministrazione giudiziaria senza reato accertato, rappresenta un problema per il paese perché mina il principio di legalità, sostituendo la certezza del diritto con il sospetto, e perché permette, come è successo a Milano con molte inchieste, di “passare dalla repressione di fatti penalmente rilevanti a interventi su fenomeni fondati su giudizi di contesto, percezioni di rischio o finalità etico-sociali”.

“E così facendo il diritto penale diventa uno strumento di moralizzazione preventiva, con effetti distorsivi sia sulla responsabilità e sulla libertà d’impresa, sia sulla tutela dei diritti fondamentali”. Come si può, da magistrato, dire che il professor Flick abbia torto? Albano ci risponde sorprendendoci. “Il codice delle misure di prevenzione è stato adottato dal legislatore, non certo dalla magistratura. I presupposti per applicarle sono disciplinati dalla legge ed è previsto che possano essere in determinati casi applicate a chi non ha subìto condanne. Certamente ha permesso di raggiungere grandi risultati per lo smantellamento del sistema economico mafioso. A me non piace, trovo ad esempio che sia un ostacolo per i parenti anche alla lontana di famiglie mafiose per potersi affrancare da quel sistema. Le misure di prevenzione hanno superato verifiche di legittimità costituzionale – con alcune limitazioni – o con le norme sovranazionali, e sono stati proprio i giudici a chiederle, ma si tratta di misure oltremodo afflittive applicabili su presupposti molto labili a volte, non credo sia accettabile in un sistema che vorrebbe essere garantista e liberale. Come non mi piace il Daspo che la legge Sicurezza allarga a dismisura anche a chi non abbia subìto condanne, ma una semplice denuncia. Lo trovo incostituzionale perché limita gravemente la libertà di circolazione sulla base di circostanze non accertate, ma appunto sulla base di un semplice sospetto. Però direi che più che con la magistratura se la dovrebbe prendere con chi ha fatto queste leggi”. Se il governo dovesse scegliere di procedere verso l’inappellabilità del primo grado sarebbe uno scandalo? “Credo che la ragione di chi ritiene che con l’assoluzione in primo grado non si potrebbe arrivare a una condanna in appello perché non verrebbe eliminato ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato abbia un suo fondamento sul quale vale sicuramente la pena di ragionare, non dimenticando però che ci sono anche i diritti delle vittime. Ma, credo, che a eventuali gravi vizi della motivazione della sentenza di primo grado (violazione di legge, travisamento delle prove, contraddittorietà della motivazione, ecc.) si possa ovviare con il ricorso per Cassazione, che non può certo essere limitato per il pm senza modificare l’art. 111 della Costituzione a norma del quale qualsiasi provvedimento decisorio è impugnabile in Cassazione per violazione di legge. La legge ‘Pecorella’ aveva abrogato la possibilità per il pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, è stata però dichiarata incostituzionale per violazione del principio di parità delle parti”.



L’onorevole Enrico Costa ha notato che presidente dell’Anm, il dottor Cesare Parodi, ha invitato a denunciare i casi di degenerazione correntizia al Csm, o ad astenersi dal gettare discredito sul Csm. Il presidente Parodi lascia intendere, secondo Costa, che il Csm fondi le sue scelte sul merito. Ma se è così, come mai il 99,6 per cento dei magistrati ha dal Csm una valutazione di professionalità “positiva”, nonostante la legge stabilisca che questa valutazione debba tenere conto dell’attività svolta e nell’attività svolta rientrino gli arresti ingiusti, per i quali lo stato ha pagato quasi un miliardo di euro dal 1992 a oggi e oltre trentamila persone sono state rovinate? “Non ho in questo momento contezza dei numeri di cui parla, ma parto dal presupposto che siano corretti. Sicuramente la degenerazione correntizia non c’entra nulla con le valutazioni di professionalità. Veniamo valutati ogni 4 anni attraverso un procedimento complesso, che comprende il parere del capo dell’ufficio, quello del Consiglio giudiziario – alla cui formazione partecipano ora anche gli avvocati – e la valutazione finale da parte del Csm. Ricevere un parere negativo ha conseguenze molto gravi, perché alla seconda valutazione negativa si viene rimossi dall’ordine giudiziario, quindi è riservato a cadute gravi di professionalità che non so se nei casi che lei cita ci siano effettivamente state. Mentre una valutazione non positiva comporta una sorta di sospensione del giudizio e una successiva verifica in ordine alla permanenza o meno delle criticità riscontrate. Comunque ci sono tutti gli strumenti per promuovere questa verifica da parte dei soggetti coinvolti”. Si dice spesso che la perdita di credibilità con cui deve fare i conti la magistratura in Italia oggi la si debba all’“aggressione che ha ricevuto dalla politica”. Ci dice però, con un po’ di autocritica, cosa la magistratura secondo lei in questi anni ha sottovalutato e cosa ha sbagliato e cosa ha fatto la magistratura da sola per perdere un po’ della sua fondamentale credibilità?

“Non c’è dubbio che ci siano state occasioni in cui la magistratura ha prestato il fianco a critiche e che non si siano fatti abbastanza i conti con quello che è emerso con il famoso scandalo dell’Hotel Champagne. Ma c’è una differenza fondamentale tra le critiche e le invettive che di fatto delegittimano l’ordine giudiziario nel suo complesso, istituzione che costituisce un architrave del nostro stato di diritto. La sua autorevolezza ed efficacia si fonda sulla fiducia dei cittadini, non sul consenso. E la delegittimazione porta inevitabilmente a una chiusura corporativa da parte della magistratura, dannosa per tutti, perché la capacità autocritica fa crescere e aiuta a riconoscere e a non ripetere gli errori eventualmente commessi”. Lei è d’accordo quando si chiede alla magistratura di stare attenta a non criminalizzare il mestiere della politica e a non trasformare la logica del profitto in un peccato fino a prova contraria? “Io credo che un’indagine serva a valutare se sussistono o meno fatti di reato. Mi pare che di regola sia così”. Siamo alla fine della nostra conversazione e poniamo ad Albano la più politica delle domande. Dottoressa, lei guida una delle correnti più importanti del nostro paese. Ci può dire in cosa si sente progressista e in cosa pensa che il governo Meloni stia andando verso una direzione pericolosa? Albano sorride e si lascia andare.

“Ci dà un’importanza che forse non abbiamo, lo prendo come un gradito complimento. Mi pare si stia mettendo in pratica un progetto che visto nel suo complesso scardina gli architravi sui quali è stata costruita la nostra democrazia costituzionale. Penso all’autonomia differenziata, alla riforma del premierato, alla riforma della giustizia, alla legge sicurezza. Cambia non solo l’equilibrio tra i diversi poteri dello stato, così sapientemente disegnato dai nostri costituenti nella preoccupazione di garantire che non si potesse più giungere a una dittatura della maggioranza, ma anche il rapporto tra potere e cittadini, da questo punto di vista devono essere letti insieme la legge Sicurezza e l’abrogazione dell’abuso d’ufficio che era un argine contro gli abusi del potere nei confronti dei singoli. Si vuole un potere assoluto della maggioranza, insofferente al conflitto, ai diritti dei singoli nel momento in cui intralciano il potere e ai controlli, che siano giudiziari o della libera stampa. Credo che ogni sincero liberale dovrebbe essere preoccupato. Penso che il progetto contenuto nella nostra Carta costituzionale, frutto di una sintesi felice tra le diverse culture rappresentate dai partiti usciti dalla Resistenza al fascismo, sia ancora in grado di garantire il progresso della nostra società e della nostra democrazia, l’espansione dei diritti di tutti”. Esondazioni delle procure, rapporto tra poteri dello stato, ruolo delle correnti nella magistratura, visioni diverse del garantismo. La conversazione con la dottoressa Albano finisce qui. Ma una domanda resta sullo sfondo: quando la magistratura sceglie di schierarsi contro alcune riforme di un governo, come si definisce un limite tra il diritto a esprimere opinioni politiche e la trasformazione delle proprie opinioni politiche in un motore della magistratura?

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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