Lezioni sulla spazzatura del trumpismo dal caso Epstein

Se scegli di ingaggiare una competizione sul complottismo, troverai sempre uno più complottista che ti travolgerà con un complotto più puro del tuo. Cosa ci insegna il formidabile cortocircuito trumpiano sulla storia dell’imprenditore americano morto in carcere

La storia più importante dell’anno per provare a capire qualcosa di più sui primi sei mesi completamente pazzi di Donald Trump è una storia che non c’entra con la politica, non c’entra con la geopolitica, non c’entra con le guerre, non c’entra con i dazi, non c’entra con il commercio, non c’entra con Israele, non c’entra con l’Ucraina, ma è una storia apparentemente minore che non ha conquistato sui giornali italiani lo spazio meritato. La storia, o meglio il romanzo, è quello che riguarda il rapporto tra Jeffrey Epstein e Donald Trump. E la storia probabilmente la conoscete già. Epstein, imprenditore americano morto in carcere nel 2019, venne accusato per la prima volta di reati sessuali nel 2006, dopo che i genitori di una ragazza di 14 anni lo denunciarono alla polizia per aver molestato la loro figlia nella casa in Florida. Nel 2019 Epstein fu nuovamente arrestato a New York, fu accusato di traffico di decine di ragazze adolescenti e fu accusato anche di aver compiuto atti sessuali con loro in cambio di denaro.

Sia nella campagna elettorale del 2020 sia in quella del 2024, Trump ha trasformato Epstein nel simbolo di tutto ciò che un nazionalista Maga a sessanta carati deve combattere. Il simbolo delle élite corrotte. Il simbolo dell’establishment compromesso. Il simbolo dell’America losca, tetra, ambigua, legata a doppio filo con il potere democratico, che Trump, una volta eletto, avrebbe dovuto scardinare. Trump, durante l’ultima campagna elettorale in particolare, ha alimentato ogni genere di complotto attorno a Epstein. Ha lasciato intendere che su Epstein “c’era molto da scoprire”, soprattutto rispetto ai suoi rapporti con i democratici. Ha promesso che avrebbe “diffuso i file segreti” su Epstein. Ha detto che molti nomi importanti, troppi, erano stati coperti. Ha detto che l’Fbi e il dipartimento di Giustizia avevano insabbiato prove. Ha detto che “la lista Epstein è la prova di come le élite si proteggono a vicenda”. Ha detto che il giorno in cui sarebbe tornato alla Casa Bianca tutti i documenti segreti sarebbero diventati pubblici.

Trump, a partire dalla storia del complotto contro di lui orchestrato alle elezioni del 2020, ha costruito buona parte della sua identità politica indossando i panni del così detto “rivelatore della verità”. Si è autodescritto a lungo come unico leader in grado di svelare i crimini dell’élite globalista. Come l’unico profeta in grado di svelare attraverso la propria azione politica il marcio nel mondo. E il caso Epstein ha permesso a Trump di caricare ulteriormente contro gli avversari un cannone armato da uno degli esplosivi più pericolosi del mondo: il complottismo. Oggi, il caso Epstein, per Trump è diventato tutto il suo contrario. E’ diventato un elemento di imbarazzo. Una nemesi. Un cortocircuito. Un cannone che dopo essere stato puntato contro gli avversari ora improvvisamente è stato puntato contro lo stesso Trump. E così Trump, misteriosamente direbbe oggi un Maga, ha scelto di non rilasciare la presunta “lista di clienti” di Epstein, nonostante avesse promesso trasparenza durante la campagna elettorale. Ha scelto di non avviare un’inchiesta indipendente. E ha scelto di rispondere in modo confuso e poco convincente, anche per i suoi standard, ai due scoop fatti dal Wall Street Journal sul caso. Prima, il Wsj ha pubblicato in anteprima l’esistenza di un album di compleanno dedicato a Jeffrey Epstein, curato da Ghislaine Maxwell, contenente una lettera firmata da Trump in cui si legge la frase “may every day be another wonderful secret”.

Trump ha accusato il Wsj di aver creato un fake e ha minacciato una causa da dieci miliardi di dollari contro il giornale di Murdoch. Ma la difesa di Trump non ha fatto breccia: il campione della creazione di verità alternative che accusa un giornale di aver creato una verità alternativa è una versione all’ennesima potenza del bue che dà del cornuto all’asino. Semplicemente, non funziona. Il Wsj, poi, ha reso noto che il dipartimento di Giustizia ha informato Trump, nel corso di una riunione a maggio, sulla fatto che il suo nome fosse presente nei documenti investigativi legati a Epstein. La Casa Bianca ha definito la notizia come un’altra “fake”, ma ha confermato di non voler rivelare ulteriori dettagli. Un cortocircuito. Una nemesi. Un disastro. La presenza di un cannone politico che Trump aveva puntato contro gli avversari e che ora si ritrova puntato contro se stesso è testimoniata anche da una serie di spettacolari invettive rivolte a Trump da alcuni personaggi importanti del mondo Maga. Alex Jones, di Infowars, ha detto che “Trump si è venduto. Dove sono i file? Perché ci ha mentito?”.

Laura Loomer, attivista trumpiana, ha accusato Trump di proteggere gli stessi pedofili contro cui aveva giurato battaglia. Mike Cernovich, commentatore conservatore, ha scritto: “Nessuna lista, nessun nome, nessuna verità. Questo è il vostro eroe?”. Alcuni canali Telegram anonimi legati alla corrente complottista più dura d’America, QAnon, secondo i quali Epstein era al centro di una rete globale di pedofili, protetti da “deep state”, “globalisti” e “liberal corrotti”, hanno rilanciato slogan come “Trump knew. Trump lied”, lasciando intendere che Trump sarebbe ricattato o addirittura “catturato” dal deep state. L’ex paladino della verità trattato da burattino delle élite teoricamente corrotte che vede le verità alternative che aveva creato divenire una trappola per la propria narrazione del mondo. L’Atlantic, con malizia, ha notato che per capire quand’è che Trump perde il controllo delle sue azioni è sufficiente consultare la timeline della sua piattaforma social, Truth, e attraverso i post di Trump, attraverso il numero di parole scritte in maiuscolo, attraverso il numero di messaggi lasciati sulla rete, attraverso il numero di post scritti in sequenza ravvicinata, è possibile capire se il presidente americano sia in sofferenza o no su un determinato tema. Sui dazi, sulla guerra, sul commercio, sull’inflazione, sul medio oriente, sull’Ucraina, Trump mostra tutto sommato un controllo misurato. Sul caso Epstein, invece, la macchina del trumpismo è andata fuori giri.

Domenica scorsa, Trump ha pubblicato 33 post su Truth, inviando 20 post tra le 18.46 e le 20.53. In quelle ore, Trump ha pubblicato un video generato dall’intelligenza artificiale dell’arresto di Barack Obama nello Studio ovale, sulle note della canzone “YMCA” dei Village People. In seguito, ha condiviso un video senza contesto che sembra essere stato ritagliato da un post virale composto sui social media. E infine ha pubblicato un messaggio in maiuscolo, chiedendo ai suoi follower di voltare pagina rispetto alla “bufala” di Epstein e definendola “una stronzata” della “sinistra lunatica”. L’Atlantic chiosa dicendo che non vi è una strategia social di Trump che emerge dalla sua difesa confusa. Il punto è un altro. Quando Trump intasa i propri social ciò che emerge, come nel caso Epstein, è solo la presenza di una persona confusa e infuriata contro cose su cui sente di non avere alcun controllo.

Diceva Pietro Nenni, con un aforisma passato alla storia, che spesso, gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. La storia del caso Epstein per Trump in fondo non è molto differente: gareggiando a fare i complottisti puri, troverai sempre uno più complottista che ti travolgerà con un complotto più puro del tuo. Trump, sul caso Epstein, ha perso il controllo dell’immaginario che aveva acceso e creato e alimentato. E d’altronde, la lezione è sempre la stessa: quando scegli di accendere il ventilatore del complotto, puoi decidere quando farlo cominciare ma non puoi scegliere quando farlo finire. Per una ragione semplice: se educhi gli elettori a non fidarsi delle verità tradizionali, l’unica verità che andrai a legittimare è solo quella compatibile con la costruzione di complotti. E’ la spazzatura, bellezza, e tu non puoi farci niente. Benvenuti nel trumpismo.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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