Meta sperimenta la pubblicità per gli utenti e per consentire di evitarla propone un’offerta premium. È la normalizzazione del disagio digitale, e forse l’inizio di un nuovo capitolo nei rapporti tra utenti e piattaforme
Alla fine degli anni Zero, Facebook era ancora giovane ma i suoi utenti erano già in protesta. Alcuni di loro, almeno. All’epoca, infatti, ciclicamente, Facebook si riempiva di campagna, gruppi e accorati status che se la prendevano con la dirigenza e le novità che imponeva all’utenza. Ricordiamo ad esempio le grandi proteste contro l’introduzione del News Feed: non più i post in ordine cronologico, ma selezionati da una logica invisibile. Un algoritmo, come abbiamo imparato a chiamarlo.
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In quel periodo, andava forte una leggenda metropolitana secondo la quale “Facebook sta per diventare a pagamento”, con tanti utenti che proponevano stratagemmi per evitarlo. Cliccare qui, pubblicare un certo status, e così via. Naturalmente non era vero: Facebook non era a pagamento, ed era assurdo anche immaginarlo. Era e sarebbe rimasto gratuito, per sempre. Oppure no?
Da giugno, Meta ha iniziato a testare su Instagram un nuovo formato pubblicitario. Coinvolge una selezione di utenti – tra cui, mio malgrado, anche il sottoscritto – e si manifesta sotto forma di interruzioni forzate. Tra una storia e l’altra, compare una pubblicità che non si può saltare e dura cinque secondi. Non sono molti, me ne rendo conto, ma il tempo è relativo, si sa, e cinque secondi passati a guardare una pessima pubblicità verticale tra una foto di vacanza e l’altra, sono tanti.
All’utente, però, tocca stare a guardare. O chiudere l’app.
In quanto partecipante a questo esperimento, sento il dover di raccontare la mia esperienza, che prevede perlopiù la seconda opzione. Non ce la faccio, a guardare le ad, mi sembrano assurde e provocatorie, specie da parte di un’azienda miliardaria che sta investendo “centinaia di miliardi di dollari” in data center per le intelligenze artificiali. E a me tocca guardare le pubblicità per forza?
È un test, mi ripeto. Solo un test. E non funzionerà mai. Ogni volta che lo dico, però, mi torna in mente l’indignazione dei tempi del vecchio Facebook: quelle proteste così sincere per elementi che abbiamo imparato non solo ad accettare ma quasi ci sembrano ovvi. “C’è stato un mondo in cui i social non avevano un feed algoritmizzato? Pazzesco”. Forse un giorno accetteremo anche queste pause pubblicitarie obbligatorie, magari imparando ad “apprezzare” lo stacchetto di qualche brand. Forse.
Certo, anche YouTube mostra da alcuni anni pubblicità non skippabili ma si tratta anche di un servizio differente: video lunghi, spesso visti su schermi grandi. YouTube è ormai un’app per la televisione: negli Stati Uniti, da mesi YouTube è l’app di streaming più usata sulle smart TV, superando anche Netflix. Il fenomeno ha spinto molti podcast a trasformarsi in videopodcast, adattandosi a una fruizione sempre più visiva.
E infatti YouTube Premium, l’abbonamento che rimuove la pubblicità, è un successo, e aiuta a rimuovere queste pubblicità così fastidiose. Ma su Instagram? Lì si guardano storie da 15 secondi, reel scippati a TikTok, scatti patinati di gente in vacanza. Ritrovarsi una pubblicità non skippabile mentre si è in fila alle Poste o in metropolitana dà una sensazione diversa: più vicina alla prigionia che alla fruizione.
E infatti, dopo avermi proposto l’ennesima pubblicità forzata, Instagram mi ha fatto una proposta indecente: vuoi toglierle per sempre, queste interruzioni? Bastano 6,99 euro al mese. Benvenuto su Meta Premium.
Meta Premium. Un nome che suona come un ossimoro. E una proposta che, nel mio caso, ha avuto un effetto immediato: disinstallare Instagram dal telefono, almeno per l’estate.
Vedremo come andrà questo piano, anche se temo che Mark Zuckerberg e i suoi facciano sul serio e vogliano aprire anche a questa forma di monetizzazione un po’ ricattatoria: “Non vuoi pagarci? E allora goditi il tuo social pieno di pubblicità”.
È un modello che funziona – lo dimostra YouTube – ma è anche il segno di una trasformazione più profonda: la normalizzazione dell’insofferenza, che si trasforma in abbonamento mensile. La chiamano anche enshittification, smerdificazione, ed è il progressivo peggioramento dell’esperienza degli utenti a beneficio delle piattaforme e degli investitori pubblicitari. A oggi, la enshittification sembra un barile senza fondo, ma chissà, forse un giorno raggiungeremo il limite. E, a quel punto, torneremo a fare post preoccupati su Facebook, come ai vecchi tempi.