Una riforma contro il processo mediatico

Scardinare gli ingranaggi che intossicano la giustizia provando a riportare il processo più vicino alle aule di un tribunale che ai talk-show. Conta la luna, non il dito. Perché la riforma Nordio è meglio dello status quo

Odi qua o di là. La riforma della giustizia approvata martedì in prima lettura al Senato ha generato una moltitudine di commenti di segno uguale e contrario. E in un tripudio di tifoserie desiderose di affermare le proprie verità assolute attorno alla riforma – è la riforma del secolo, è la riforma che voleva Berlusconi, è il trionfo del garantismo, anzi no, è una riforma pericolosa, è una riforma eversiva, è una riforma che trasforma l’Italia in una repubblica delle banane – l’impressione è che in molti abbiano scelto di non mettere a fuoco quella che è la vera ciccia del passaggio politico di fronte al quale ci troviamo oggi. La ciccia corrisponde in realtà a un bivio di fronte al quale l’opinione pubblica e la politica tutta si ritrovano a dover ragionare ogni volta che la cronaca presenta motivi per scegliere da che parte stare. O di qua o di là. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia non è tra chi vuole indebolire la magistratura e rafforzare la politica e non è neppure tra chi vuole rafforzare la magistratura per indebolire la politica. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia è tra chi considera il processo mediatico un dramma del nostro paese su cui intervenire con forza e chi invece considera il processo mediatico una virtù del nostro paese da difendere a tutti i costi. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia non riguarda solo la scelta di considerare una riforma buona o meno buona ma riguarda la volontà di comprendere che in Italia la mancanza di equilibrio tra poteri dello stato, tra potere giudiziario e potere legislativo e potere esecutivo, dipende non solo da una magistratura che spesso fatica a celare i suoi tratti ideologici, ma soprattutto da una serie di ingranaggi che fa della pubblica accusa un potere con pochi contrappesi. Chi considera l’esondazione del processo mediatico un’oscenità, chi considera la presenza di una pubblica accusa irresponsabile un dramma, chi considera un problema per il paese l’assenza di meccanismi in grado di tutelare le garanzie di un indagato, chi considera una vergogna dello stato di diritto la presenza di un sistema giudiziario che trasforma con disinvoltura un sospetto in una prova, un indagato in un condannato, un teorema in una sentenza, dovrebbe ricordare, come dice il saggio, che il meglio è nemico del bene, che ciò che è necessario non è sempre sufficiente e che il modo peggiore possibile per disarticolare gli ingranaggi del processo mediatico è scegliere di non muoversi, di non fare niente e di assecondare lo status quo.

La riforma Nordio, naturalmente, è più che perfettibile, ma il tentativo che porta avanti è quello di scardinare gli ingranaggi che hanno intossicato la giustizia italiana e che hanno permesso negli ultimi trent’anni di calpestare con disinvoltura i tre articoli della Costituzione che vengono maltrattati ogni volta che un magistrato accende il ventilatore della gogna e dà un suo contributo per rendere violabile in modo discrezionale l’inviolabilità e la segretezza delle comunicazioni infilando nella macchina dello sputtanamento anche comunicazioni penalmente irrilevanti (articolo 15), per considerare la presunzione di innocenza un orpello inutile della Costituzione (articolo 27) e per fare del giusto processo, dove in teoria dovrebbe esserci una parità tra accusa e difesa, un accessorio del nostro stato di diritto (articolo 111). Se la si osserva attraverso questa chiave di lettura, si capirà facilmente che avere una distinzione netta tra chi indaga e chi giudica (separazione delle carriere) permette di non assecondare più una suggestione diffusa e reale, ovvero che la magistratura non sia un blocco monolitico, che giudice e pm siano due cose diverse, e che offrire un quadro all’interno del quale un giudice è ancora più terzo di prima permette di riequilibrare in piccola parte lo squilibrio che esiste nel processo mediatico tra accusa e difesa.

Se la si osserva attraverso questa chiave di lettura, si capirà facilmente che anche la volontà di introdurre un meccanismo elettorale di sorteggio temperato all’interno del Consiglio superiore della magistratura è finalizzata a sterilizzare uno degli elementi centrali del processo mediatico, ovvero lo strapotere delle correnti, e solo chi ha scelto di tapparsi gli occhi su ciò che è diventata la magistratura negli ultimi anni può fingere di non sapere quanto l’egemonia delle correnti nella magistratura e la diffusione incontrollata del processo mediatico siano due fenomeni simmetrici. Più un magistrato farà carriera grazie alle correnti e più quel magistrato avrà bisogno di farsi notare per quel che fa e non soltanto per quello che ottiene. E più un magistrato avrà bisogno di far parlare di sé, per scalare le correnti, più quel magistrato sarà portato a considerare il processo mediatico come un moltiplicatore delle proprie opportunità. La riforma Nordio non è la migliore del mondo, lo sappiamo, i difetti sono tanti, e uno dei difetti principali è probabilmente la presenza di due Csm, che rischia di rendere il pubblico ministero ancora più protagonista, ancora più super accusatore, rispetto a come lo è oggi. Ma una riforma che cerca di ristabilire un equilibrio tra accusa e difesa, che cerca di depotenziare le correnti, che cerca di rendere più terza la figura del giudice, che cerca di riportare per quanto possibile i processi più lontani dai talk-show e più vicini alle aule del tribunale, è una riforma che può considerare pericolosa solo chi ha scelto pericolosamente di considerare il processo mediatico non come un vizio ma come una virtù del nostro paese. O di qua o di là. Noi abbiamo scelto da che parte stare. Contro la gogna. Contro la barbarie. Contro l’eversione. Contro la proliferazione di una repubblica fondata sulle costanti esondazioni dei pm e sulla sistematica demonizzazione della difesa. O di qua o di là. Scegliere da che parte stare non dovrebbe essere così difficile.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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