La piccola cerchia attorno alla presidenza ha fatto votare l’esautoramento delle due agenzie fondate nel 2015, tra i risultati simbolicamente più incisivi del Maidan. Chi sta fuori può, e deve, stare con il presidente contro i suoi nemici e i suoi falsi amici a est e a ovest, ma non può stare contro gli ucraini
Non si può più far finta di non vedere, e nemmeno di guardare con un cannocchiale rovesciato. La guerra al fronte, i bombardamenti, la legge marziale, l’amor patrio sono altrettante ragioni per unirsi e rimandare al domani i conti reciproci. Ma le cose infrangibili, alla lunga, quando trovino uno spigolo più esposto, vanno in pezzi. In Ucraina i nodi sono venuti al pettine, tutti in una volta. E chi sta fuori può – deve – stare con Zelensky contro i suoi nemici e i suoi falsi amici a est e a ovest, non può stare con Zelensky contro gli ucraini. Martedì le manifestazioni nelle piazze di Kyiv, di Lviv, di Odessa, di Dnipro, hanno visto insieme, a migliaia, militari in servizio, reduci, e giovani, soprattutto giovani donne. Cartelli improvvisati sul cartone delle scatole e scritti a mano: “Vergogna!”
Nel giro di un giorno, la piccola cerchia attorno alla presidenza ha fatto votare a grande maggioranza dalla Verkhovna Rada l’esautoramento delle due agenzie anticorruzione fondate nel 2015, che erano state fra i risultati simbolicamente e praticamente più incisivi della rivoluzione di Maidan. E Zelensky si è affrettato a firmarlo. Un misfatto, e un errore madornale. Commesso in un momento che disegna la tempesta perfetta. Per Putin, che già non aveva altra mira che la protrazione dell’attacco, con le sue avanguardie dentro Pokrovsk, la crisi ucraina è una manna: l’avvicinarsi del sogno malato di provare che sono gli ucraini a rinnegare un governo “fantoccio” e la propria libertà. Dopo tre anni e mezzo, la gente ucraina è stremata e insofferente, e non potrebbe essere altrimenti. Qui gli arruolamenti forzati e spesso violenti di renitenti alla leva erano stati tempestivamente registrati e denunciati, e da un punto di vista rigorosamente solidale con la difesa ucraina. Non è mai venuta, da parte delle autorità civili e militari, un’informazione su costi e ricavi di una simile scelta. La difesa al fronte si è davvero giovata di questo genere di mobilitazione, e abbastanza da compensare il risentimento di tanta parte della popolazione? E soprattutto: abbastanza da compensare lo sdegno per la più odiosa corruzione, la compravendita degli esoneri dal servizio militare, un’offesa irreparabile alle famiglie e ai combattenti? Con gli stessi metodi violenti e intimidatori sono state condotte nei giorni scorsi le irruzioni nelle sedi delle agenzie anticorruzione, e l’operazione contro il più esposto dei denunciatori di Zelensky.
La mossa della presidenza contro le agenzie anticorruzione, assoggettate a un procuratore generale obbediente e libero di annullare qualunque procedimento sgradito con una telefonata, ha qualcosa insieme di protervo e di cieco, e fa temere una scrollata di spalle rispetto al famoso ingresso nell’Unione europea. Oltretutto, è venuta a poca distanza dall’incriminazione di uno dei più stretti amici di Zelensky, il vice primo ministro Oleksiy Chernyshov, per una storia di appropriazione indebita di terreni. Tre giorni fa, il Kyiv Independent, il maggior (e miglior) quotidiano online in lingua inglese, aveva impiegato parole senza precedenti: “Avevamo lanciato l’allarme sul ritorno all’autocrazia, ora lo vediamo accadere … Il presidente Zelensky sta scegliendo di minare le istituzioni democratiche ucraine nel tentativo di espandere il suo potere personale”. Quelle parole sono state presto surclassate dalle dichiarazioni di personalità della cultura e delle stesse istituzioni.
Lo storico Yaroslav Hrytsak, notissimo anche da noi, ha paragonato la decisione a qualcosa come un colpo di stato. Scontato il disinteresse della banda Trump a piccolezze come la corruzione, gli alleati europei hanno finora tenuto un profilo basso, peggiorando quello bassissimo tenuto durante tutta la guerra, col sottinteso che la solidarietà con un paese coraggioso e falcidiato non potesse convivere con il controllo della sua democrazia, culturale prima ancora che economica. La precipitazione attuale è una conseguenza prevedibile (prevista, qui) dell’ostinazione di Zelensky e della sua cerchia a tenersi strettissimo il potere, piuttosto che a prevedere e assicurare una successione aperta – e non “prenotata” – una volta che la cessazione dei bombardamenti l’avesse resa possibile. E in quella cerchia ristretta è possibile che ci sia qualcuno il cui potere reale superi il suo. La guerra così prolungata e così estenuante non poteva che aggravare le tensioni interne al paese e rafforzare i fanatismi nazionalisti passati per patriottici. Ora, di colpo, ad alta voce, l’opposizione in nome della fedeltà alla rivoluzione della dignità e ai suoi caduti, e dell’attaccamento all’Europa. Verrà probabilmente spacciata da difensori oltranzisti e malintesi dell’Ucraina per l’effetto di mene russe o americane o le due insieme, e viceversa come la conferma della passione ucraina per la servitù al Russkij Mir, riproducendo i meccanismi strumentali o psicotici dell’interpretazione di Euromaidan.
“E’ possibile – concludeva il Kyiv Independent – condizionare la leadership ucraina in modo da proteggere la democrazia senza indebolire la difesa contro la Russia”. Voglia il cielo, e tutti noi, che lo sia. Ieri Zelensky ha provato a metterci una toppa, promettendo una nebulosa riforma della giustizia assieme alle organizzazioni anticorruzione. “Entro due settimane”. Dentro e fuori, l’Ucraina è assediata dai penultimatum.