Le paternali sui costi di Milano non tengono conto di due aspetti. La Milano che attrae. E la Milano che respinge i cittadini dalla Ztl
Le indagini sull’edilizia milanese, giunte ora all’ultimo round dopo che i precedenti avevano sfiorato appena il bersaglio grosso, cioè il sindaco, si sono già trasformate in un processo pubblico al “modello Milano”. Claudio Cerasa, su queste colonne, ha spiegato bene come parte della magistratura non abbia ancora fatto pace con il motivo del profitto, che diventa subito “movente”, di quale reato poi si vedrà.
Per i critici “di sinistra”, il “modello Milano” consiste sostanzialmente in alti palazzi eretti nel centro città, nella dimenticanza sistematica delle periferie, in prezzi al metro quadro che corrono sempre in salita (da cui avrebbero tratto vantaggio solo i palazzinari, e non chiunque in città disponga di un alloggio), nell’espulsione del ceto medio, specie quello “intellettuale”, costretto a rifugiarsi nell’hinterland. Per i critici “di destra”, il modello Milano è la politica scritta a misura di chi vive nella cerchia dei Navigli e vota Pd, celebra l’ennesima settimana di eventi e non vede il degrado della sicurezza perché sotto casa sua anche i vu cumpra’ hanno l’Apple Watch.
Sia la destra sia la sinistra in questi giorni si concentrano sugli alti valori immobiliari. Anche grazie alla narrazione prevalente negli ultimi anni (esagerata e con tratti di mitomania: Milano non è e non sarà mai Londra né Parigi e nemmeno Budapest, l’hanno deciso la storia e la geografia), tanta gente si è voluta trasferire a Milano. Che non è solo il suo racconto. Al di là del “fighettismo”, delle settimane della moda e del design, dell’entusiasmo per grattacieli belli o brutti come ce n’è in tutte le metropoli del globo, Milano è una città comoda, piccola, e in due ore d’aereo o poco più di treno sei dappertutto in Europa, la burocrazia è cervellotica quanto ovunque in Italia ma più trasparente, di affari non ci si limita a parlare, le università attraggono una popolazione di ragazzi che alimenta una domanda di locali e cose nuove.
Insomma, in un paese vecchio, Milano sembra quasi giovane – e allora vecchi e giovani vogliono venirci a vivere e lavorare. I prezzi salgono per questa semplice ragione.
Di come abbia funzionato il development immobiliare che l’Italia se non il mondo ci invidia, Gabriele Albertini ha detto e scritto decine di volte. Bisognava superare il ricordo vivo e bruciante di Tangentopoli. Per questo, venne sviluppato un sistema di audit interno al comune preso a prestito, per logiche, dal privato e si pensò a come attirare, con un sistema di regole rigorose, grandi investitori internazionali, all’epoca assai diffidenti. Albertini veniva dall’industria, teneva in tasca la lettera di dimissioni, era stato un’invenzione geniale del Berlusconi outsider e antipolitico. La sua visione era quella di una città che cresceva in altezza per tornare a essere la capitale produttiva che era sempre stata per vocazione. La separazione draconiana tra politica ed economia serviva all’impresa, prima di tutto. E infatti Albertini costruisce Milano ma vende anche la centrale del latte e le farmacie, fa la guerra ai tassisti, non frequenta architetti e non riceve nessuno nel suo ufficio se non con un testimone.
Le “periferie” sono una priorità sin da subito. Tant’è che la Scala viene spostata, durante il restauro del teatro, agli Arcimboldi, per innescare processi di rigenerazione.
Nota bene: Albertini e i suoi a tutto pensano fuorché a sbarrare il centro alle automobili, che è la vera cifra dei suoi successori.
Sul piano delle regole, l’obiettivo è di ridurre il grado di discrezionalità, oltre i vecchi strumenti dei Piani regolatori con cui le élites decidono dove devono stare i centri commerciali e dove le botteghe del calzolaio. L’esperimento di un’urbanistica liberale (che è, come dire, ghiaccio bollente) dura poco ma lascia il segno.
Sono gli anni in cui si parla tanto e magari a sproposito di città metropolitana. Il sindaco sa benissimo che la popolazione di Milano è otto volte di giorno quel che è di notte, e meglio di lui lo sa il presidente della Regione Lombardia. Milano è la capitale di uno stato (la Lombardia è una Svizzera mancata), un cuore che ci tiene alla pulizia delle arterie.
In quel “modello”, Milano alzava la marea anche per Sesto San Giovanni, per Monza, per Bergamo, per Como, Varese e così via.
A un certo punto qualcosa è cambiato.
Non è certo colpa del sindaco Sala, ma in un paese che si pensa in declino anche dove e quando non lo è, e con una leadership lombarda che dopo Formigoni è sostanzialmente evaporata, Milano è diventata l’idrovora della regione e del nord Italia. Per salvare se stessa, ha tentato e talvolta è riuscita in operazioni spericolate per inglobare tutto il possibile nel proprio territorio. Ha investito, più o meno consapevolmente, in una retorica per cui quello che sta a nord e quello che sta a sud della città è buono solo per farci le vacanze. Ha smesso di essere catalizzatore del dinamismo lombardo ed è diventata la città dell’apericena. Quel ceto medio intellettuale che si sente espulso da casa propria racconta a sé e agli altri che se vivi in Brianza, nella tana della borghesia laboriosa, sei un fallito.
Sul piano delle regole, accantonato il tentativo dell’urbanistica liberale si è ripiombati nella logica della pianificazione urbanistica, temperata dal ricorso alla discrezionalità del decisore.
Non è colpa di Sala se l’Italia scarroccia e se Milano è una specie di salvagente su cui tutti si buttano. Ma è responsabile, eccome, dell’ideologia con cui ha verniciato il salvagente. In una città che è piena di manager ma dove non c’è più uno straccio di classe dirigente, i cui vecchi santi patroni di curia, Assolombarda e banche hanno perso smalto e sono le ombre dei loro predecessori, Sala è stato il vero pivot, ormai affrancato da ogni contropotere, stampa inclusa.
A dispetto della sua bella inflessione milanese, il sindaco ha de-lombardizzato Milano quanto e come poteva. Ha scelto come board of trustees della capitale economica architetti e designer, le categorie più refrattarie all’antica virtù meneghina e borghese del risparmio. Ha abbracciato con slancio il Vangelo Green e, nonostante gli spazi verdi non siano mai stati tanto pochi (due alberelli, nella nuova piazza San Babila, non ci stavano proprio?), ne ha fatto il grimaldello per cambiare prassi, comportamenti, viabilità.
Non date la colpa alla giunta Sala per quel che ha costruito, semmai per il dove, e ancor più per quello che non ha costruito, per i processi rallentati (a cominciare da San Siro, su cui sono cinque anni che il sindaco tentenna), per aver pensato e voluto una città ancora più piccola, sempre impegnata a guardarsi l’ombelico.
“I milanesi saranno turisti nella loro città”, ha detto una volta un assessore e questo è stato il mantra degli ultimi anni. Il più visibile provvedimento del sindaco resta la ciclabile in Corso Buenos Aires, che significa, lo dico a beneficio dei non milanesi, l’ostruzione a tavolino di una delle direttrici di ingresso in città. La demenziale pedonalizzazione di Piazza Castello (dove il turista, o milanese facente funzione, al massimo può rimirare i portoni e tirare a indovinare dove vivesse Umberto Eco) è stata, alla fine e per fortuna, circoscritta. La città si è riempita di paracarri, le aree C e B sono state ripristinate a pandemia appena conclusa, gli spazi per parcheggiare sono scomparsi.
A fronte di tutte le chiacchiere sulla città inclusiva, il “salismo” era votato all’esclusione sistematica dell’automobile, cioè del mezzo più utilizzato da chi in città ci viene non a guardare il cielo ma a lavorare. Per forza ha i suoi delusi. Fra i diritti garantiti dalla Costituzione più bella del mondo, non c’è quello a un appartamento nella ZTL.
Il “modello Milano” versione Sala non è stato la grande edilizia che ha cambiato il volto della città: quello lo hanno fatto Albertini e Moratti. E’ stato semmai un tentativo di filtrare l’esigenza di nuove costruzioni, resa palese dai prezzi, con un pensiero ideologico sulla città, una sorta di slow food cementizio dove il cittadino dovrebbe trovare tutto ciò che gli serve in un raggio di quindici minuti, affrancato dall’esigenza di muoversi, spostarsi, trasportare cose, dal fare la vita, insomma, per cui uno vive in città e non altrove.
Si è trattato di un tentativo, più o meno consapevole, di selezionare chi deve stare all’interno della cerchia cittadina, di espellere il vecchio commercio, di massimizzare i benefici della bonanza meneghina per un nucleo preciso e omogeneo di persone. Struggersi per gli studenti che non possono permettersi un affitto in centro è ridicolo: ma nella lamentazione per l’universitario che non può andare a piedi a lezione c’è tutto il senso di entitlement di certo establishment, proiettato sulla generazione successiva.
La deautomobilizzazione di Milano non è solo una faccenda simbolica. Qualcosa a che fare con la dinamica dei prezzi ce l’ha, dal momento che rende meno conveniente vivere nelle altre città lombarde, vicinissime ma distantissime appena si fermano (o scioperano) i mezzi pubblici.
Tutto ciò è la conseguenza di qualcosa che dall’inchiesta, dai soliti whatsapp che non dovremmo leggere ma che non possiamo fare finta di non avere letto, emerge chiaramente. Si è pensato non solo di governare ma di disegnare Milano in quattro amici al bar. Tutte persone, per inciso, di altissimo livello ma tutte convinte delle stesse cose, impegnate a darsi ragione a vicenda, inclusive di tutto eccetto le idee altrui. Si dirà che è così sempre, che ogni governo è una cricca, ed è vero. Ma quando le cricche si chiudono su se stesse non possono lamentarsi se arriva qualcun altro e ne prende il posto, con tutta la brutalità che le circostanze consentono.
E’ già evidente che l’inchiesta, costata la testa all’assessore Tancredi, non aprirà nessuna discussione su norme urbanistiche tentacolari e ancora sovietiche, che a Milano come altrove sono ritenute irrinunciabili dai sindaci, salvo fare ricorso a scelte totalmente discrezionali e a prassi discutibili per non cadere nell’immobilismo. Da quel che si intuisce in queste ore, semmai quella maglia di regole verrà stretta, il che prelude solo a comportamenti ancora più spregiudicati da parte di decisori, palazzinari e lobbisti.
Le responsabilità sono personali e andranno chiarite nelle sedi opportune. Sul piano politico, la risposta alla crisi ha già preso la forma delle paternali sui prezzi, degli appelli al solito ectoplasmatico “civismo”, di una “fase due” in cui Sala farà ammenda fermando i progetti su San Siro e intensificherà la guerra ad AirBnB. La Milano che parla, come sempre, è la peggior nemica della Milano che fa.