Come sempre succede nella morfologia della fiaba italiana dopo il successo è arrivata l’inchiesta. Oggi se non parli male di Milano non sei nessuno
Ah, Milano! La sfottevamo qui sul Foglio quando non era di moda farlo (e all’epoca, pre-Covid, tutti offesissimi, quando scrivevamo che non tutto brillava sotto le torri scintillanti. Chi ti paga?Chi ti manda?). Oggi, invece, se non parli male di Milano non sei nessuno. Dunque parrebbe il momento di difenderla, la povera Milano. Come sempre succede nella morfologia della fiaba italiana dopo il successo è arrivata l’inchiesta, ed ecco quindi le immaginifiche intercettazioni sui giornali, irrilevanti ma atte a scatenare grandi indignazioni, poi arriveranno condanne zero o pochissime, nel frattempo carriere finite o devastate e la destra si sarà presa ancor più facilmente la città e si ricomincerà d’accapo (rispetto al solito, Sala, che non si dimette, ha incassato la solidarietà quasi unanime del Governo; e del resto può contare sul governo meno dimissionabile della storia della repubblica: Santanché, Salvini, Del mastro; se ne dimette uno, viene giù tutto, altro che il palazzo Generali a City Life). Però i piani della questione sono abbastanza ingarbugliati: troppi grattacieli per ricchi, dice il polemista collettivo. Si prospetta il reato di concorso esterno in grattacielo.
Però appunto il reato di concorso esterno in grattacielo non esiste (ancora); e anche nelle intercettazioni finora venute fuori si scopre al massimo che Boeri chiamava Sala perché bloccato in Cina senza passaporto (ma poi risolveva da solo). O proponeva grattacieli che Sala non voleva (architetti che propongono grattacieli: di questo passo dove andremo a finire). Tra l’altro, tra un po’ Boeri scade per la presidenza della Triennale, e da destra si fa strada il nome di Stefano Zecchi, risulta al Foglio. Allora sì che Milano diventerà a misura d’uomo (si autocandida invece l’architetto e critico Luigi Prestinenza Puglisi). Ma poi: ce lo vedete Boeri a chiedere o dare mazzette? Col fantasma della mamma Cini, emblema di milanesità schiena dritta dei Bastioni che gli viene a tirare i piedi? (in questi giorni poi Boeri è alla Maddalena a riparare i danni dell’anno scorso, quando il fantasma della Cini fece crollare il soffitto della celebre casa tonda da lei disegnata, pubblicata su tutti i manuali di architettura, soffitto che crollò proprio il giorno del di lei compleanno. Saranno altri oscuri presagi dopo il cedimento strutturale dell’insegna Generali “in”- rigorosamente, alla milanese, City Life?). Perché altre pene potrebbero essere comminate, volendo, per i mancati articoli determinativi, “settimana prossima ti faccio sapere”, si legge nelle intercettazioni, oltre che per il solito milanenglish (“consideralo un warning”). Però, se non saltano fuori altri tipi di veri reati, anche qui finora il codice penale è lontano.
Ma sul punto della questione, che espella i suoi figli, intesi come i poveri, Milano, certo: ed è quello che le città fanno generalmente. Da sempre: diventare più ricche e compatte e prestigiose e care. Più lo sono e più ci vogliamo andare, però, di solito. Tentando di diventare anche noi prestigiosi e ricchi e compatti. Non molti infatti si trasferiscono a New York o San Francisco o Dubai rilevando come prime impressioni: ah, che qualità della vita! Che abbondanza di spazi! E come costa tutto poco! (a meno di non prediligere il south working; ma per esempio trasferendosi a Lamezia Terme, si preferirà il non finito calabrese ai Boschi Verticali?).
Poi certo ci sono le eccezioni: il modello Vienna, per cui ogni volta che salgono gli affitti si costruiscono automaticamente case popolari (mostrato bene all’ultima Biennale di architettura di Venezia); ma è un’eccezione, appunto, e Vienna è una capitale e per costruire le case pubbliche ha una legge nazionale specifica, legge che in Italia non c’è né Milano è capitale. Se l’affanno grattacielistico milanese è diventato angoscioso, poi, è questione di gusti (l’architetto di Re Carlo Léon Krier perito qualche settimana fa aborriva notoriamente le moderne torri e vagheggiava palazzine ovunque, fino a costruite un villaggio simil-vernacolare in Gran Bretagna). Ma da noi cosa vorremmo? L’architetto nostalgico che rifà in stile e in serie delle cascine-Cuccagna o filologicamente le orride Varesine che sorgevano al posto di Porta Nuova? Fino ad arrivare al colmo: rivalutare le urbanistiche berlusconiane di Milano 2 e 3. Tutto basta che non ci siano i grattacieli. C’è anche qualche esagerazione nella narrazione di questi giorni (come sempre Milano ispira reazioni isteriche); ecco le cronache disperate dei “murati vivi” tra i grattacieli, raccolte dal Corriere (“Porta Nuova, gli abitanti imprigionati tra i grattacieli di Gioia”: “La sua casa è accerchiata: a Est e Ovest i Portali, a Nord il palazzo della Regione. Una volta affacciandosi poteva osservare le Alpi e il parco Bam, adesso l’orizzonte si è ristretto alla manciata scarsa di metri che separano il suo appartamento dal grattacielo Coima”). Il grattacielo Coima, cioè di Catella, come la torre di Lex Luthor (siamo tra Superman, il Pozzetto di “Il ragazzo di campagna” e lo Steinbeck dell’America della Grande depressione).
Ma siamo a Milano, nella realtà, e il problema è semmai che Milano fa Milano, cioè costruisce, mentre l’Italia fa l’Italia. E cioè, non son tanto i prezzi di Milano pazzi (cioè sì, lo sono, dalla cotoletta del bar al bilocale), ma il fatto è che Milano almeno formalmente rimane in Italia, dove stipendi da 1.200 euro al mese sono considerati la norma, 2.000 da nababbi, 3.000 prerogativa di un 1 per cento di sibariti. Quindi il giovin designer che pensa di arrivare e replicare oggi i fasti di un redivivo Magistretti o Versace, guadagnando 1200, avrà qualche difficoltà nell’alloggio. Milano però anche in questo è all’avanguardia, perché nessun italiano tra un po’ riuscirà a vivere non solo a Milano ma in Italia: se si viaggia un po’ anche in angoli meno chic rispetto a City Life, per esempio sempre in Calabria o in Puglia, per non dire fermandosi agli ormai inavvicinabili Autogrill con prezzi maggiori di Cracco, non è infrequente trovare spremute d’arancia a 6 euro e piatti di pasta a 25. E neanche tra i “Borghi più belli d’Italia”(senza grattacieli).
Insomma non solo Milano – come vaticinammo anni fa – ma l’intera Italia è un brand che non ci possiamo più permettere (col mistero che in tutto il mondo spopolano movimenti che promettono lotte contro l’inflazione, da noi invece i prezzi che salgono ci sembrano forse uno status symbol, un upgrade, direbbero gli intercettati milanesi).
Così a Milano non si riescono a trovare autisti per i tram perché la paga è troppo bassa, e anni fa un’offerta di lavoro del comune che cercava un social media manager fece scalpore, era di 1.300 euro (lordi), dunque il social media manager di Milano avrebbe dovuto abitare a Brescia. Ecco, Brescia. Non per campanilismo, ma anche qui, il problema non è Milano, è fuori: perché Milano, se volesse davvero giocare da vera capitale europea, dovrebbe allargarsi alle città circostanti: non solo Brescia ma Pavia, Mantova, Cremona: tutti posti civilissimi dove con 500 euro trovi fiori di appartamenti in affitto. Con viaggi più brevi che dai vari boroughs di Londra, e spendendo molto meno, certo se le Tre Nord (competenza regionale!) funzionassero, e le gang non ti accoltellassero come è successo “settimana scorsa”. In confronto alle Tre Nord, i Frecciarossa di Salvini sembrano treni svizzeri o giapponesi. A proposito, Salvini quando si dimette? Ma no, a Roma non si dimette nessuno: e forse a far scendere un po’ i valori immobiliari di Milano saranno i tanti romani inurbati a Milano negli ultimi anni, che magari torneranno a casa. Una volta la cosa migliore di Milano era “er treno pe’ Roma”, secondo i nostalgici, e adesso rischia di diventarlo di nuovo, col boom della Capitale dei Pnrr e dei Giubilei, e la crisi invece parallela del capoluogo lombardo. Certo, bisogna vedere se poi parte, questo treno, ma questa è un’altra faccenda, vabbè.