Il dramma del giudice che sentenzia. Sarà condannato ad approssimare, o esiste l’oggettività in tribunale? E cosa significa “oltre ogni ragionevole dubbio”? Come non cadere nella trappola del “vero di serie B”
C’è diversità di idee e di approcci teorici, anche tra i giuristi, su cosa si debba o possa intendere per verità. Com’è noto, si tratta di un concetto controverso, che alcuni filosofi considerano persino pericoloso per la sua potenziale valenza polemogena (per affermare una pretesa verità si può anche usare violenza omicida contro chi è portatore di una diversa verità). Ma, se c’è un settore nel quale sembrerebbe impossibile fare a meno della verità come parola e come concetto, questo è proprio quello del diritto e del processo penale. Ciò dipende, al di là della speculazione teorica, da un sentire sociale profondamente radicato che percepisce (emotivamente, prima che razionalmente) la giustizia intimamente legata alla verità, una sorta di binomio indissolubile. Non solo sarebbe un gravissimo abuso, contrario a ogni senso di giustizia, condannare taluno per un reato senza averne prima fondatamente accertato l’effettiva responsabilità. Fare verità o maggiore verità su quanto è accaduto, a prescindere anche dal fatto che i giudici individuino un responsabile da condannare, può già di per sé lenire le ferite delle vittime e costituire un modo di dare in qualche misura ascolto alle loro aspettative di giustizia.
Ma è tutt’altro che facile, al di là del senso comune, indagare i rapporti tra verità e processo. Non a caso, nel codice di procedura penale italiano non si fa riferimento alla verità come obiettivo da perseguire con le indagini e il processo.
Probabilmente, questo silenzio è dovuto, più che a scetticismo o diffidenza, a prudenza: essendo da tempo acquisita la consapevolezza, tra i giuristi teorici e pratici, che al processo sono connaturati limiti di potere conoscitivo, che impediscono ad esso di fungere sempre da sicuro strumento di verità. Per esemplificare, si considerino i limiti alla stessa raccolta delle prove, che il legislatore introduce allo scopo di proteggere diritti o interessi di rango superiore o equivalente all’interesse per la persecuzione dei reati (come il divieto di tortura, o di utilizzare tecniche d’indagine che influiscano sulla libertà di autodeterminazione o sulla capacità di valutare e ricordare, trattandosi di mezzi che offendono la dignità umana della persona). Altri limiti sono legislativamente previsti a salvaguardia della stessa attendibilità dell’accertamento probatorio (si pensi ad esempio alla facoltà concessa al prossimo congiunto dell’imputato di non deporre, derivante dalla preoccupazione di porre al riparo il processo da dichiarazioni condizionate da forte emotività e perciò poco affidabili).
Se è ingenuo o irrealistico pensare che i giudici siano sempre in grado di verificare come sono effettivamente andate le cose, come se la loro ricostruzione a posteriori dei fatti dovesse corrispondere a una fedele fotografia di tutto quanto è davvero accaduto, dobbiamo chiederci in che senso si può affermare che il processo assolve una funzione pur sempre veritativa – sia pure di una verità intesa in senso non assoluto, ma relativo. Invero, si tende per lo più oggi a condividere la tesi che la verità “processuale”, in quanto verità attingibile nel processo e col processo, sia fatta di verità probabili e contestuali, il cui livello di fondatezza deriva a sua volta dal grado di certezza delle informazioni ottenute con l’uso degli strumenti probatori consentiti. “Vero”, per dirla con Michele Taruffo, è tutto ciò che è stato provato. Ma quando si può ritenere che sia stata raggiunta la prova di qualcosa? Sembra esservi un certo consenso sostanziale – al di là di possibili diversità di accenti e sfumature – sul fatto che l’accertamento probatorio ha la struttura logica di una inferenza induttiva e, perciò, sfocia in verità non certe al cento per cento, ma più o meno probabili: vale a dire, consistenti in ipotesi ricostruttive giustificate da buone ragioni, tenuto conto del contesto e del compendio probatorio disponibile (per cui nuove informazioni o un mutamento del contesto possono neutralizzare o ridimensionare la verità di quanto in precedenza ritenuto vero). In questo orizzonte di riferimento, il metodo migliore per attingere la prova è identificabile nel contraddittorio, assunto nel nostro ordinamento a principio di rilievo costituzionale espresso a partire dal 1999 (art. 111, co. 2, Cost.).
Esso implica un metodo dialettico di formazione della prova: il significato e la rilevanza delle vicende oggetto di giudizio non possono essere colti solipsisticamente; piuttosto, l’accertamento probatorio si atteggia a impresa collettiva basata sul principio del confronto democratico, secondo la logica di una disputa aperta tra le diverse ipotesi ricostruttive in campo sostenute dall’insieme degli attori processuali (magistrati, avvocati, parti civili, periti ecc.). (Ma non sono mancate fasi storico-politiche, caratterizzate da un’involuzione autoritaria dello stato, in cui la valenza gnoseologica del contraddittorio è stata contestata, contrapponendo alla concezione dialettico-argomentativa della prova una concezione scientifica di essa, con la conseguente raffigurazione del giudice come uno scienziato solitario che ricerca la verità con metodi più simili a quelli tipici delle scienze cosiddette dure). Ovviamente, nulla però può garantire che la logica del contraddittorio mantenga sempre le sue promesse: non diversamente da altri metodi, anch’essa soggiace al rischio di torsioni, manipolazioni ed errori.
Per rafforzare l’affidabilità della verifica probatoria ai fini di una condanna, il legislatore ha nel 2006 introdotto nel codice di rito la regola di giudizio, di matrice angloamericana, del beyond any reasonable doubt (regola Bard), precisamente all’art. 533 c.p.p. che afferma: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”). Trovata la formula magica risolutiva? Tutt’al più, soltanto a prima vista. A ben vedere, il criterio Bard, al di là della sua fascinazione liberal-garantista, in sé considerato è alquanto vago: non definisce, ma lascia aperto il senso attribuibile al concetto di dubbio ragionevole, e perciò non aiuta di per sé a distinguere tra dubbi ragionevoli e dubbi irragionevoli. Il compito di specificare e concretizzare questi concetti finisce, quindi, con l’essere di fatto addossato a giuristi e giudici. In sintesi, vi è una certa convergenza nel ritenere che una decisione giudiziale sia conforme al criterio Bard in tutti i casi nei quali non sia prospettabile un’ipotesi esplicativa alternativa idonea a scalfire in qualche punto rilevante la tenuta logica della soluzione ricostruttiva che il giudice considera più in linea con l’accertamento probatorio compiuto. Con una puntualizzazione: il dubbio astratto che le cose potrebbero essersi svolte altrimenti esiste quasi sempre; il dubbio rilevante, il dubbio ragionevole è solo quello giustificato da elementi e circostanze di fatto concreti, tali da far apparire altrettanto plausibile una lettura diversa dei fatti. Va comunque rilevato che il vero problema, al di là della definizione teorica, consiste nell’applicare il criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio con autentico rigore argomentativo, sottraendosi nella prassi giudiziaria alla facile tentazione di farne un uso manipolativo o puramente retorico.
Com’è intuibile, rimane oggettivamente arduo distinguere tra dubbi ragionevoli e dubbi irragionevoli nei casi concreti connotati da insufficienza di informazioni fattuali e da forte ambiguità. Sicché, l’opzione tra condanna e assoluzione rischia di risultare più volontaristica, che sorretta da un approccio argomentativo affidabile. Insomma, la decisione finale risente inevitabilmente di un accentuato soggettivismo. Se si vuole evitare l’eccesso di soggettività, e dunque si intende prendere sul serio la regola Bard, nei casi poco chiari che rimangono tali, la soluzione dovrebbe di conseguenza essere sempre a favore dell’assoluzione. A prescindere dalla gravità del delitto oggetto di giudizio, dalle aspettative di punizione socialmente diffuse (o delle stesse vittime) e dalle pressioni mediatiche. Emblematica in questo senso la vicenda dell’omicidio di Garlasco, tornata di recente alla ribalta giudiziaria e mediatica: essa comprova quanto possa risultare di quantomeno dubbia credibilità una sentenza di condanna emessa nonostante l’irrisolta incertezza circa la effettiva dinamica dei fatti, la motivazione del delitto e la reale colpevolezza della persona condannata, tanto più dopo due precedenti sentenze di proscioglimento. E proprio la riapertura delle indagini finisce col provocare l’effetto di delegittimare ancora di più la sentenza definitiva di condanna del presunto responsabile dell’uccisione della giovane Chiara Poggi.
Deriva implicitamente da quanto precede che, per evitare un sostanziale tradimento del Bard, occorrono presupposti e condizioni che rimandano al livello di competenza, all’orientamento personale e alla autopercezione di ruolo da parte del giudicante (un giudice che si percepisca come combattente contro fenomeni criminali, piuttosto che come magistrato tenuto a valutare con rigore e scrupolo singole vicende delittuose, sarà più facilmente tentato di eludere la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, appunto in vista del suo prevalente obiettivo combattentistico).
Se, specie nei casi difficili e incerti, sarebbe illusorio pensare di potere immunizzare l’accertamento processuale da una ineliminabile misura di soggettività, questa misura risulterà condizionata da opzioni di valore e anche da componenti emotive. Rileva bene Paolo Ferrua: “Quel che si ricostruisce sono i fatti, ma l’atto con cui il giudice ritiene ‘provata’ una certa ricostruzione, respingendo come ‘irragionevole’ ogni contraria ipotesi, è intriso di valori”. Un diverso giudice, altrettanto in buona fede e scrupoloso, potrebbe invece considerare provata l’ipotesi opposta, senza che emerga alcuno strappo alla legalità processuale. E’ questo uno degli aspetti più drammatici e inquietanti della giustizia penale. Quanti giudici sono capaci di sottoporre a controllo razionale i propri pregiudizi e impulsi emotivi, di prendere le distanze dalle preferenze personali, così da attingere la maggiore obiettività possibile nello scegliere la ricostruzione che possa risultare più sostenibile? Per riuscire a mettersi in guardia anche da se stessi, occorre uno speciale talento; e questo talento difficilmente è acquisibile attraverso gli studi giuridici e l’ordinaria formazione professionale impartita dalla Scuola della magistratura. Ma sarebbe in ogni caso auspicabile che, nei percorsi formativi, si impartisse una deontologia del giudicare che includa quale regola fondamentale il “metodo del dubbio”, così come da anni suggerisce un filosofo del diritto maestro di garantismo penale come Luigi Ferrajoli: il quale sottolinea il valore anche etico del dubbio, considerata la permanente possibilità dell’errore fattuale.
A questo punto, dovremmo giungere alla conclusione realistica che il processo è in grado di attingere una verità convenzionale, una sorta di verità di serie B, contrabbandata per verità vera allo scopo di rendere socialmente accettabili gli esiti dei giudizi e di non delegittimare l’esercizio della funzione giudiziaria? In realtà non mancano studiosi disincantati a tal punto da ritenere che sia proprio così. Ma tanto realismo e tanto disincanto possono risultare più dannosi di una fiducia ingenua nel potere veritativo del processo. Rientro nel novero di quanti ritengono che, per non compromettere in partenza la possibilità che il processo riesca a ricostruire effettivamente come sono andate le cose, sia invece preferibile mantenerlo il concetto di verità, pur consapevoli della sua controvertibile problematicità. Continuare a sostenere che i giudici hanno una funzione veritativa, e a rivendicare l’importanza di una rigorosa applicazione del criterio Bard, equivale infatti a rivolgere a coloro che giudicano un ammonimento innanzitutto morale: a essere prudenti, a essere quanto più possibile scrupolosi nel vagliare la fondatezza delle ipotesi accusatorie.
Giovanni Fiandaca è professore emerito di Diritto penale presso l’Università di Palermo. Prosegue con il suo articolo la serie estiva del Foglio dedicata alla verità. Ogni settimana un autore diverso si occuperà di osservare questo concetto fondamentale dal punto di vista di una specifica disciplina: giurisprudenza, matematica, astrofisica, economia, politica, informazione, teologia. La prima puntata, “La verità, in pratica” di Michele Silenzi, è uscita martedì 15 luglio.