La Consulta ha dichiarato l’illegittimità del tetto massimo di sei mensilità di sanzione contro il licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese (previsto già prima della riforma del lavoro), mentre per quelle più grandi il limite rimane a 36 mesi. Una macroscopica stortura
Con la sentenza n. 118 depositata il 21 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 23/2015 — parte del cosiddetto Jobs Act — nella parte in cui stabilisce che l’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore illegittimamente licenziato da un datore di lavoro “sotto soglia” (con meno di 15 dipendenti per unità produttiva o meno di 60 complessivi) “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Una previsione che, secondo la Consulta, viola i principi costituzionali di proporzionalità, adeguatezza e funzione dissuasiva del risarcimento, comprimendo eccessivamente il potere del giudice di personalizzare la risposta alla violazione subita. Il tetto fisso, privo di margini per considerare la gravità del licenziamento e le circostanze del caso concreto – sostiene la Corte – finisce per svilire il significato stesso della tutela contro il licenziamento ingiustificato.
A questo proposito è bene ricordare che il tetto massimo di 6 mensilità per le piccole imprese e per anzianità di servizio fino a dieci anni non è una novità del Jobs Act, ma era stato introdotto già dalla legislazione del secolo scorso. Legislazione che, tuttavia, aveva avuto maggior fortuna, passando indenne da ogni censura di legittimità costituzionale.
La critica della Consulta alla compressione del potere del giudice nel determinare l’entità della sanzione è stata sollevata per la prima volta dalla sentenza n. 194 del 26 settembre 2018, la prima di una lunga serie di pronunce dei giudici delle leggi che hanno progressivamente riscritto il D.lgs 23/2015. In effetti proprio la riduzione della discrezionalità del giudice era stata la cifra distintiva di quell’intervento legislativo, sul presupposto che un costo prevedibile ex ante del licenziamento illegittimo avrebbe ridotto l’incertezza del giudizio, che colpisce soprattutto il lavoratore, parte economicamente debole del rapporto di lavoro. Diversamente ha opinato la Corte costituzionale, la quale ha invece ritenuto incomprimibile il ruolo del giudice nella sua valutazione di ogni specifica circostanza del caso concreto. Tuttavia, mentre la sentenza del 2018, pronunciandosi sulla disciplina relativa alle imprese con più di quindici dipendenti, aveva riconosciuto la legittimità della scelta legislativa di stabilire dei minimi e dei massimi, in questa ultimissima pronuncia, che si è occupata della disciplina delle piccole imprese, la Corte ha cancellato ogni limite legale alla misura della sanzione, rimettendola interamente nelle mani del giudice.
Ne deriva un quadro complessivo che fa emergere un paradosso: mentre per le piccole imprese – quelle fino ai 15 dipendenti – la sanzione economica è potenzialmente illimitata, per le grandi imprese vale, secondo quanto ritenuto nel 2018 dallo stesso organo giurisdizionale, il limite massimo, oggi fissato in 36 mesi. Questo risultato finisce per capovolgere la logica della differenziazione delle tutele in funzione della dimensione dell’impresa. Logica, è bene ricordarlo, promossa dal legislatore dello Statuto dei lavoratori che, nel 1970, aveva coerentemente riservato la sanzione più onerosa alle grandi imprese, ritenendola incompatibile con le piccole o micro realtà imprenditoriali.
Perciò non sorprende che oggi la Corte delle leggi invochi un intervento legislativo che riordini la materia dei licenziamenti nel suo complesso. Intervento che dovrebbe, innanzitutto, corregge questa macroscopica stortura.