Per Trump, viva il re

A settembre la visita da Carlo III: il tycoon esulta come un bambino per l’invito. Farage scalpita, Starmer fa il prudente: gli inglesi non amano il presidente americano

Invito strategico, a settembre. Con Westminster sospesa, tutti i deputati sparsi per il paese a seguire i congressi di partito, e Buckingham Palace fuori gioco per via di certi lavori di ristrutturazione che rendono la remota Windsor una residenza di gran lunga preferibile per la seconda, e già per questo storica, visita di Stato del presidente statunitense Donald Trump nel suo amatissimo Regno Unito, pieno com’è di mistica monarchica e di echi ancestrali. Ma a lui va bene così, vuole godersi gli onori e la pompa magna e il banchetto a palazzo, trascorrere “a good time”, andare a “rendere omaggio a Re Carlo, perché è un gran gentiluomo” e parlare con Sir Keir Starmer, che ormai elogia in continuazione anche “se è un liberale”. E ci mancherebbe: il premier britannico gli raccoglie i fogli del prezioso accordo sui dazi quando un vento dispettoso li fa volare via, si prepara ad andarlo a trovarlo in Scozia nei suoi campi da golf a fine mese e gli ha mandato a Washington il più flautato degli emissari, l’ambasciator Peter Mandelson, ex “cretino assoluto” (come da tweet del consigliere Chris LaCivita di qualche tempo fa) diventato così benvoluto che Trump lo ha accolto nello Studio ovale al grido di “Mioddio, che bell’uomo che sei!”. Mandelson ha ricambiato la cortesia con una sontuosa intervista al Sunday Times in cui ha arricchito il repertorio diplomatico di una nuova fenomenale formula, ossia: “Il più delle volte c’è un nucleo di verità in tutto quello che Trump dice”.

Insomma, la visita del 17-19 settembre va bene così per tutti, fastosa, defilata e con poche occasioni di confronto, tanto che Trump ha augurato pure ai deputati di “andare e divertirsi”, invece di doversi impegnare a calibrare le loro proteste e i loro discorsi in modo da risultare graffianti e incisivi pur nella consapevolezza che l’unico risultato concreto della Brexit finora viene dalla Casa Bianca e sono i dazi al 10 per cento, un terzo di quello che è toccato in sorte come punto di partenza al blocco europeo. Una sassata, certo, ma comunque uno sconto eccezionale dovuto alla “special relationship” che Starmer sta preservando con sforzi erculei, dopo una fase terribile in cui veniva attaccato in continuazione da Elon Musk – erano altri tempi – e da Trump stesso, che aveva indirizzato i suoi strali in particolare verso il sindaco di Londra, Sadiq Khan. Pare che a Downing Street si siano ispirati al compianto Shinzo Abe, ex premier giapponese che era riuscito a mantenere un rapporto amichevole con il presidente americano anche durante le fasi più turbolente.

Le uniche proteste di prammatica contro la decisione di non mettere il presidente statunitense in condizione di rivolgersi ai deputati sono venute dal vivace fonte trumpiano britannico, guidato dall’habitué di Mar-a-Lago Nigel Farage, più tonico che mai nei sondaggi con un deciso 29 per cento, contro il 23 del Labour di Keir Starmer e l’anemico 17 dei conservatori usciti massacrati dai cinque primi ministri in dodici anni, tra cui Boris Johnson, che con Trump aveva più che un’evidente affinità tricologica. Per Farage il fatto il presidente francese Emmanuel Macron abbia appena avuto l’onore di una visita di Stato con tanto di discorso mostra che “l’Unione europea viene prima di tutto, prima ancora dell’America, che non solo è il nostro alleato più importante, ma senza il quale siamo indifesi”. Insomma, per lui è tutto molto “sciatto” e visto che l’invito viene da Buckingham Palace – come dimenticare il teatrino di Starmer che gli porge la lettera di Carlo a febbraio nello Studio Ovale e Trump che esulta come un bambino la mattina di Natale? – starebbe al governo richiamare il Parlamento al lavoro, e lo stesso pensa e dice la conservatrice Suella Braverman, altra fedelissima trumpiana dalle idee radicali, ex ministra dell’Interno travolta al momento dal brutto scandalo dei collaboratori afghani a cui è stato offerto segretamente asilo politico (a loro e alle loro famiglie, si parlerebbe addirittura di 100 mila persone in tutto) dopo che i loro nomi erano trapelati per sbaglio in una mail nel 2022. Una classe politica, quella di Reform Uk e dell’ala destra dei Tories, figlia di una evidente americanizzazione della cultura britannica, che più si fa nativista e sovranista e più somiglia a quella dei cugini d’oltreatlantico: urlata, polarizzata, con temi identitari e un certo spazio a teorie controverse.

Trump che esulta come un bambino per l’invito. Non si rivolgerà al Parlamento, ma gli va bene così, innamorato com’è della monarchia

Ma non bisogna esagerare con le somiglianze, perché l’elettorato ultrapopulista britannico, ora che non ha più neppure il complesso di sentirsi una retroguardia di anziani bigotti, va trattato con mille cautele culturali. Farage, che ha sempre fatto di tutto per incarnare tutti i valori britannici tra visite al pub e sospiri nostalgici, deve stare attento quando esporta materiale trumpiano nel Regno Unito. I suoi elettori di Reform Uk si sono mostrati ambivalenti, se non addirittura inorriditi, davanti a certe sparate, a partire da quella di voler rendere il Canada uno Stato americano. “Sono un suo amico, e i nostri interessi sono simili, ma non sono speculari”, ha precisato Farage con vaghezza caratteristica e molto strategica, vista quanto cambiano gli interessi del suo amico (e lui lo sa bene, avendone fatto le spese in passato) e soprattutto essendo alle prese con un corteggiamento serratissimo dell’elettorato laburista. Se l’idea di mettere un Doge tagliasprechi in ogni contea, come da iniziativa di Elon Musk, si sta scontrando la realtà dei fatti e con la scarsa esperienza amministrativa dei rappresentanti locali, la nuova linea trumpiana sull’Ucraina, dopo l’improvvisa rivelazione che Vladimir Putin non è un interlocutore affidabile, rimuove almeno uno dei principali punti di disaccordo con l’elettorato britannico, generalmente compatto nel suo sostegno a Kyiv (e con qualche cedimento in più solo da parte degli elettori di Reform Uk).

L’elettorato ultrapopulista britannico va trattato con mille cautele culturali. L’orrore per il progetto di rendere il Canada uno stato Usa

Ma facciamo un passo indietro. Secondo i sondaggi, per i britannici Trump è principalmente una fonte di imbarazzo: il 57 per cento lo trova tremendo e solo il 4 lo considera un gran presidente, stando a YouGov. Per le classi medie, sia di destra che di sinistra, rappresenta la materializzazione di tutto ciò che i compassati britannici odiano degli americani. E anche tra i sostenitori di Reform Uk, il 31 per cento considera la rielezione di Trump “molto negativa” o “piuttosto negativa” per i cittadini americani, stando a uno studio dello European Council on Foreign Relations. Per un quarto dei britannici Trump è peggio dei terroristi, per un terzo degli elettori a Farage si può perdonare quasi tutto ma non la sua vicinanza con il presidente americano. Insomma, Trump non è uno che trasforma in oro tutto quello che tocca, e anzi il rischio è che il suo brand rivoluzionario-populista finisca con il fare l’effetto della Brexit, che ha “alienato gli elettori e li ha stretti intorno al sentimento europeo”. I ricercatori sono chiari su questo punto: “Una reputazione tossica può mettere un tetto al sostegno populista”. Insomma, ci vuole moderazione, e anche se Reform UK continua a crescere non è detto che le peripezie dei Maga siano un volano per la sua crescita. Non solo: secondo l’Ecfr la Brexit offre un precedente interessante per interpretare l’impatto “del progetto rivoluzionario” di Trump e quel precedente parla di disincanto e di delusione, sia nel Regno Unito che nei paesi Ue, dove l’antieuropeismo si è di fatto ammansito. Per il presidente americano tutto questo ha una spiegazione, che ha esposto in un’intervista telefonica alla BBC: il Regno Unito, ha detto, è un “gran posto”, come dimostra il fatto che ha dei possedimenti da quelle parti, ma ancora non ha tratto il meglio dalla Brexit, perché finora si è agito in modo “sciatto”. E poi ha aggiunto, con un chiaro riferimento a Starmer: “Penso stiano raddrizzando le cose”.

Anche tra i sostenitori di Reform Uk, il 31 per cento considera la rielezione di Trump “molto negativa” o “piuttosto negativa” per i cittadini americani

Questa seconda visita di Stato, che, come viene ribadito a ogni piè sospinto, non ha precedenti nella storia della “special relationship”, avviene a soli sei anni di distanza dalla precedente e in un paese completamente diverso, con un’economia in profonda crisi e un governo che sta cercando di rimettere ordine, senza grande successo, nei disastri combinati da una sequela di premier Tories. Uno dei pochi punti in comune con il 2019 è che sia allora, quando il presidente e Melania andarono a fare la riverenza a Elisabetta II e nel cielo di Londra troneggiava un pallone gonfiabile con le fattezze di un neonato trumpiano o di un Trump neonatesco, che adesso, il 40 per cento dei britannici pensa che Trump non meriti un invito. Sei anni fa le strade delle grandi città si sono riempite di manifestanti e questa volta, con due guerre in corso e un progetto politico molto più aggressivo di quello precedente, Scotland Yard teme proteste ben maggiori.

Trump ama le lusinghe e Londra gliele sta concedendo, ma senza esagerazioni. Già sei anni fa l’ipotesi di un discorso a Westminster, privilegio dato a Reagan, Clinton e Obama, aveva suscitato molte polemiche, anche da parte dell’allora speaker John Bercow, che si era opposto sottolineando come non fosse “un diritto automatico, ma un onore da conquistare”. Ma al presidente non interessa, per lui l’aspetto più importante e simbolico è il ricevimento da Carlo e Camilla, visto l’entusiasmo che ha sempre provato per la monarchia. “Sono stato invitato dal Re e dal grande paese, faranno una seconda festa, perché è questo che è”, aveva detto pieno di entusiasmo nell’annunciare di aver accettato l’invito insieme alla “nostra meravigliosa First Lady Melania”. Con il re, tenuto alla massima impassibilità e imparzialità politica, sono molti i temi di un conflitto che per ragioni costituzionali non potrà mai emergere, dal cambiamento climatico, da sempre al centro delle sue preoccupazioni, fino al Canada, oggetto delle minacce trumpiane. All’apertura del parlamento di Ottawa, Carlo III ha esortato il paese a rimanere “forte e libero” e ha promesso di “difendere i canadesi e i loro diritti sovrani”, senza mai fare nomi né specificare da chi andrebbero difesi. Difficilmente un monarca può spingersi oltre nell’esporre il proprio punto di vista e rifiutare una visita di stato decisa dal governo non è tra le sue prerogative: ancora si narra di quando Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena furono invitati nel 1978 e di quando la regina Elisabetta, per non incrociare il dittatore rumeno mentre passeggiava per il giardino insieme ai suoi cani, si andò a nascondere in un cespuglio di rose. È invece saltato l’altro incontro previsto tra Trump e Carlo e Camilla, che lo avevano invitato a raggiungerli in una delle residenze scozzesi durante il soggiorno in calendario a fine mese per andare a visitare i suoi campi da golf.

Dal 25 al 29 luglio sarà a Turnberry e ad Aberdeen, come confermato dalla Casa Bianca e “durante la sua visita il presidente Trump incontrerà nuovamente il primo ministro Starmer per rifinire il grande accordo commerciale raggiunto tra gli Stati Uniti e il Regno Unito”. Probabilmente, “in una delle mie proprietà”, ha aggiunto il presidente in un’intervista, spiegando che anche Aberdeen dovrebbe lasciar perdere le turbine e le pale eoliche e dedicarsi al petrolio, con una stoccata alle politiche ambientali del governo. Sono due anni che non va in Scozia, da quando ha inaugurato un campo da golf a Menie, nell’Aberdeenshire, dedicato a sua madre Mary, nata nella Isle of Lewis, ma l’ultima volta che lo ha fatto da presidente, nel luglio del 2018, gli scozzesi sono scesi in piazza in gran numero. Stavolta tutto sembra più serio, più grave, e sono poche le critiche nei confronti di Starmer per aver tenuto una linea che conviene a tutti. Un certo pragmatismo, irrobustito anche con la Brexit, suggerisce che è meglio assecondare le stagioni politiche in attesa che passino, tanto più che i cambiamenti, nel mondo di Donald Trump, avvengono a un ritmo travolgente. Chi cerca di seguirli senza inciampare è Mandelson, che ha dichiarato al Sunday Times di voler rendere la “special relationship” più accettabile agli occhi degli inglesi e, preso dall’entusiasmo, ha descritto Trump come “una personalità più sfumata di quello che la gente coglie”, un “politico unico”, ma con un senso della storia straordinari. Con una formula efficace lo ha descritto come uno che “non è vittima della paralisi da analisi”, anche perché ha “un modo molto rapido e facile di afferrare i punti centrali di una questione”.

Intanto l’ambasciatore a Washington Mandelson descrive Trump come “una personalità più sfumata di quello che la gente coglie”

Pure J.D Vance è “più sfumato” di quanto appare, e meno male perché all’inizio era “un po’ un bruto” secondo l’ambasciatore, che con la sua teoria del “kernel of truth”, del “nucleo di verità” di ogni sparata trumpiana è finito a parlare di immigrazione: “Non puoi avere una società che si allontana, sezioni, gruppi, comunità. È lì che la gente inizia a preoccuparsi davvero”. Pure Starmer ci ha provato, a dire che il Regno Unito non deve diventare “un’isola di stranieri”, solo che poi si è pentito, ha ritrattato, non è un linguaggio da premier laburista, seppur alle prese con funambolismi vari per far sì che l’Atlantico resti un oceano il più possibile quieto.

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